
La spiegazione del senso dell'ultimo spettacolo di Moni Ovadia sta tutta nelle analogie: «Sono quelle, e sono molte, tra napoletanità e cultura yiddish spiega l'attore in scena al Teatro Menotti insieme all'ensemble sudista Ánema stasera con Concerto Napolide La capacità di raccontare l'esilio dalla propria città, innanzitutto. E poi l'arte popolare dell'ironia.
Sul palcoscenico io do voce a un testo straordinario, do verità alle parole. Non c'è bisogno di recitarle, basta leggerle. Le protagoniste sono loro, in significato e sonorità: ne emerge una Napoli forte e delicata, splendente e piena di rivoli di umanità». Dunque è quella gemma incastonata nel Mediterraneo che gli antichi Greci, dopo averlo fondata, chiamarono «Città Nuova» la protagonista assoluta - bella e complicata, fonte di gioia e di rabbia - di uno spettacolo che l'attore milanese, simbolo del racconto yiddish in Italia, mette in scena affidandosi al testo di Erri De Luca Napolide.
In questo libro, lo scrittore partenopeo scrive: «Chi nato a Napoli si stacca e perde la cittadinanza è napolide», ed è facile comprendere come un ebreo filosoficamente errante come Moni Ovadia si senta conquistato da questo sentimento. «L'idea è nata insieme al mio manager ed eccellente musicista Marcello Corvino, che è anche uno dei membri della band Ánema spiega Ovadia.
A ciò si aggiunge che io, da molti anni, conosco Erri De Luca». Il concerto alterna la lettura della pagine dello scrittore a brani suonati e cantanti. I brani sono composizioni originali degli Ánema e evergreen della tradizione melodica napoletana.