Coronavirus

"Né terrore né negazionismo, ecco come possiamo farcela"

Il virologo direttore sanitario dell'ospedale Galeazzi: "Il contagio sommerso cresce, tutti i contatti a rischio"

"Né terrore né negazionismo, ecco come possiamo farcela"

Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università di Milano e direttore sanitario dell'ospedale Galeazzi, qual è la situazione dell'epidemia oggi?

«Dal punto di vista degli ospedali la situazione comincia a essere pesante. È necessario non fare allarmismo, perché l'eccessiva paura porta a un'eccessiva pressione sui pronto soccorso. In questa seconda ondata abbiamo l'oggettività di un'amplissima diffusione della malattia, grazie anche alla sua peculiarità: in tanti è una malattia banale, e questa banalità è la sua forza».

Perché spesso non si vede.

«C'è una gran parte di asintomatici, che rappresenta la principale causa nella catena di contagio. Adesso notiamo una grossa diffusione, con un insieme di focolai che si incontrano e si moltiplicano, in un corto circuito negativo fra luoghi di lavoro e famiglia. Il tutto dipende da molti diversi fattori che possono accrescere i contatti, anche dalla tipologia abitativa delle città. A Milano, certamente, non ci sono case sparse come in campagna».

Il punto è ridurre i contatti.

«Ogni contatto è un rischio. Chi è stato colpito delle misure dice legittimamente: Ho preso tutte le misure; però il punto è che noi adottiamo diversi tipi di controllo - mascherine, distanza, igiene - ma sono come schermi che si sovrappongono, non sono impermeabili, non si arriva al rischio zero. Io spero che quelle misure possano riutilizzarle presto. Lo spirito del Dpcm vigente, e credo di quello che verrà, è ridurre i contatti. Tanto più li riduciamo e tanto meglio sarà. Siamo a questo punto anche per aver aperto molto nei mesi scorsi. È stato un comprensibile ritorno alla vita, ma ha creato le condizioni per la seconda ondata».

Spieghiamo perché c'è stato uno «scoppio ritardato» rispetto all'apertura?

«Pensiamo a un iceberg. I primi casi, autunno 2019, sono asintomatici, teniamo presente che sui voli diretti Milano-Whuan c'era un interscambio settimanale di 20mila passeggeri. Tutto ciò ha formato la parte sommersa dell'iceberg, con casi reali dieci volte tanto quelli emersi. Quando l'iceberg poi s'ingrossa troppo, la crescita da lineare diventa esponenziale, con tutto ciò che purtroppo abbiamo visto. A un certo punto, con le misure, le temperature elevate, lo stare all'aperto, l'iceberg si è sciolto, ma è rimasto lì. La riapertura delle scuole, gli spostamenti e il resto hanno ricreato questa enorme base sommersa».

Il cosiddetto negazionismo ha avuto un peso?

«Può aver inciso questo aspetto. C'è un problema di autorevolezza delle istituzioni e anche della scienza in quanto tale. Chi dice cose semplici, che piacciono, che paiono verosimiglianti, può avere una qualche presa».

Lei è favorevole a misure per Milano o per le altre aree metropolitane?

«Per le grandi aree metropolitane sì, con un coordinamento sui principi. È chiaro che non è facile ora, è davvero un disastro economico ma non si può sacrificare la salute all'economia, e comunque, anche se si fa, le persone malate non lavorano e non consumano. Anche i più giovani. E il positivo asintomatico deve stare a casa. Anche in questo senso non si può dire freghiamocene di chi non produce».

Però misure non coercitive, che prevedano servizi e tutele particolari per le categorie a rischio, quelle sì?

«Assolutamente sì, gli anziani non vivono in una bolla, serve una grande attenzione: sviluppare un'attività territoriale e di assistenza. Oggi il 30% della popolazione assorbe il 60% delle risorse del sistema sanitario, ma se non ha servizi particolari, è sola, va in ospedale e poi torna a casa sola, si complica tutto. Serve una rete di servizi diversi, in collaborazione coi medici di famiglia. Questo modello, in cui non c'è niente fra pronto soccorso e casa, va superato».

Anche la figura del medico di famiglia, professionista ma in convenzione, sembra un nodo critico.

«Certo, un medico che ha un ambulatorio al terzo piano di un condominio ha difficoltà, magari si sente solo lui stesso, soprattutto se ha quattro mascherine e basta. Ora ci sono dei monitoraggi su livelli di spesa e di performance dei medici. Io vedo molto bene le esperienze di consorzi fra medici, anche con specializzazioni diverse, anche in un'ottica di cura intermedia, case delle salute o cose simili. Se un paziente ha bisogno solo di una flebo serve un luogo intermedio fra casa e ospedale».

I tamponi servono ancora?

«É importante farne tanti. Certo siamo in affanno, ora serve a mitigare il contagio più che a contenerlo. E serve a riagganciare la possibilità di un contenimento».

Il vaccino?

«Vorrei che non esagerassimo con il sensazionalismo. È vero, pare che uno o più vaccini potranno essere disponibili da dicembre. Ma immagino lo sforzo organizzativo di una campagna che pare necessiti di due dosi e deve anche persuadere la popolazione a vaccinarsi. Lo stesso problema fra l'altro si pone per l'anti-influenzale. Speriamo...».

Che inverno sarà? Sempre più duro o un «tira e molla»?

«La speranza è che quanto è stato fatto cominci a dare risultati, magari non eclatanti ma che mitighino appunto il contagio. Si dovranno modulare le misure in modo da convivere con il virus, è giusto dirlo. Si dovrà continuare a lavorare in modo da non cadere nell'allarmismo, a volte anche indotto.

La malattia spesso pare banale ma questo la rende ancora più insidiosa».

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