Antonino «Nino» Benfante è in carcere a San Vittore dal 5 dicembre scorso, ma di processo per lui ancora non si parla. Subito dopo l'arresto del 50enne «Tonino Palermo» (questo il suo soprannome) qualcuno aveva ipotizzato il rito immediato. L'uomo è un criminale vero, seppure con un suo personalissimo codice d'onore inviolabile e nonostante soffra del morbo di Parkinson. È accusato di aver ucciso negli orti di via Lessona, al confine tra il quartiere di Quarto Oggiaro e Novate Milanese, dopo averli attirati in un tranello, il boss decaduto Emanuele Tatone, 52 anni e il suo tirapiedi Paolo Simone. Cinque colpi di calibro 38 e «Lele» lo sbruffone insieme al suo autista 57enne (in realtà «colpevole» solo di essere un testimone oculare e quindi «costretto» a morire insieme al suo capo) se ne sono andati all'altro mondo. Questo accadeva quasi nove mesi fa, il 27 ottobre scorso. Secondo l'accusa tre giorni dopo, con quattro fucilate calibro 12, Benfante uccide in via Pascarella anche il fratello maggiore di Emanuele, Pasquale, 54 anni. In breve: Benfante aveva affidato una partita di droga a Lele Tatone prima di finire in carcere. Uscito dopo un mese lo stupefacente era sparito. E Nino non aveva perdonato.
A carico di Benfante, che ha precedenti per tentato omicidio e traffico di droga per i quali ha passato metà della sua vita dietro le sbarre, gli inquirenti hanno ben poco o, comunque, non molto: qualche tabulato telefonico, qualche intercettazione, immagini di telecamere e alcune testimonianze. In realtà quella determinante è stata fornita dalla sua compagna, madre del loro bimbo di 2 anni, Desiré. Impaurita da tutto quel sangue e da quello che ne poteva derivare, la donna decise di accusare formalmente il suo convivente dei tre delitti commessi raccontando tutto ciò che sapeva alla polizia il 5 novembre 2013, un mese prima dell'arresto di Nino. Infatti sono le parole della donna a riempire le pagine dell'ordinanza sugli omicidi Tatone e Simone.
In questi giorni Desiré, dopo mesi trascorsi in una struttura protetta con il suo bambino (è anche madre di una ragazza di vent'anni nata dal precedente compagno, un uomo dei Tatone poi pentitosi, ndr) è tornata a Quarto Oggiaro. Ed è lì che riceve delle lettere da Nino Benfante che le scrive dal carcere. L'uomo non porta rancore alla madre di suo figlio. È convinto che quanto è stato messo a verbale dopo le dichiarazioni della donna le sia stato in qualche modo estorto facendo leva sulla paura. «Non devi temere alcuna ritorsione da me - scrive Nino Benfante a Desiré -. Io sono un uomo d'onore e certe cose le capisco bene».
Resta comunque un particolare importante, soprattutto se si mette in parallelo la vicenda processuale di Tonino Palermo con quella del bergamasco al momento più tristemente famoso d'Italia, il presunto assassino di Yara Gambirasio, Roberto Bossetti. Per il muratore dai capelli biondi si profila il giudizio immediato: quando la procura ha elementi sufficienti per portarti in giudizio infatti lo fa subito, ed è quello che vuole la procura di Bergamo contro Bossetti. Al contrario invece la Procura di Milano non si è ancora pronunciata in tal senso su Tonino Palermo. Ciò può significare due cose: o il filone di omicidi di Benfante si è in qualche modo allargato e porterà ulteriori provvedimenti di custodia cautelare oppure la Procura ancora non ha in mano prove sufficienti per sostenere l'accusa in un processo. Non dimentichiamo infatti che la polizia, pur avendo a lungo scavato negli orti di via Lessona dov'è stato commesso il duplice omicidio, non ha mai trovato le armi usate da Benfante per uccidere.
Ora Mario, l'unico fratello dei Tatone rimasto vivo, in giro non si vede più da un pezzo. E anche sua madre, quella Rosa Famiano un tempo da tutti chiamata «Nonna eroina», resta chiusa in casa. A Quarto Oggiaro regna la pace o anche i Tatone temono un inaspettato rilascio di Benfante?
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