Sorriso: «Posso parlare». Eccolo nella sua parresìa il vescovo Mario Delpini, consapevole del suo futuro più blindato, anche se non è uomo che si lasci imbrigliare dalle formalità. Più che un'intervista, dichiarazioni spontanee sui giovani, la scuola e l'integrazione, interrotte da qualche domanda. L'occasione del colloquio, il 22 giugno, quando la sua nomina non era ancora ufficiale, è la presentazione del XXVI rapporto Caritas sull'immigrazione, dal titolo «Nuove generazioni a confronto». Parole di commento al rapporto che, rilette adesso, suonano quasi come un piccolo programma. Spiega Delpini: «Le nuove generazioni sono quelle che guardano avanti, il materiale che costruisce il futuro. Questo tema invita chi ne vuol parlare a conoscere i dati, perché parlarne per slogan o per impressioni derivati dalla cronaca non serve a capire il problema e ad affrontarlo».
E come può essere affrontata la situazione?
«Con attenzioni specifiche, che io chiamerei l'arte di costruire il buon vicinato, non parlare degli immigrati ma considerare gli immigrati della porta accanto, i compagni di scuola del figlio. Più che un problema di carattere generale, affrontare il vicino di casa e vedere in che modo la sua presenza può essere un bene per me e la mia presenza essere un bene per lui. Il buon vicinato vuol dire sostanzialmente questo».
Si è parlato molto del ruolo importante della scuola.
«Si è parlato della scuola, dell'inserimento nel territorio, dei problemi che i giovani immigrati hanno nella cittadinanza, che è il tema del giorno ma non è l'unica questione. A me sembra che la società civile italiana abbia tante risorse per costruire insieme la Milano del futuro, l'Italia del futuro, la Lombardia del futuro».
Qual è il ruolo delle istituzioni pubbliche?
«Le istituzioni pubbliche sono di fronte a un grande impegno. La scuola ha una responsabilità notevole. Sta operando con mezzi ridotti e metodologie da precisare, ma è una scuola che si fa carico di questo rendere possibile a tutti i ragazzi che vivono qui la città di domani, imparando la lingua e cercando di entrare nella vita».
Come si può rispondere alle paure dei cittadini?
«Le paure dei cittadini sono da decifrare. Credo che sia responsabilità degli strumenti di comunicazione presentare il problema con onestà, perché mi sembra che molte paure siano suscitate dal modo in cui si parla del problema».
Gli attentati in Europa però ci sono stati davvero.
«Un attentato a Bruxelles non può voler dire che tutta l'Europa si spaventa. Questa sproporzione tra la cronaca e la verità genera le paure. Certo sono successe cose veramente tragiche. Ma se dobbiamo dedurre da quel che è accaduto a Londra o Bruxelles come si deve vivere a Milano, a me sembra un atteggiamento emotivo. La paura ha a che fare con l'emotività e chi la alimenta si deve prendere le sue responsabilità. I problemi hanno a che fare con la ragione e bisogna considerare i dati».
Come fare un passo avanti per affrontare la questione?
«Non pretendo di avere il modo per fermare gli attentati. Secondo me la coltivazione paziente del buon vicinato potrebbe dare consapevolezza se il mio vicino di casa sta preparando una bomba oppure è un poveraccio che cerca di sbarcare il lunario, lavorando più di me magari e in condizioni più sfavorevoli.
Se la città di Milano diventasse un tessuto di vicini che si interessano di più l'uno dell'altro, sarebbe più improbabile che si annidino terroristi nell'appartamento sotto il mio. Non tocca a me prevenire il terrorismo, ma costruire una città solidale sì».
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