La pianista uccisa dopo un drink col killer

A 30 anni dall'omicidio non si conosce ancora chi accoltellò Clotilde Fossati. Era un amico?

La pianista uccisa dopo un drink col killer

È il 1988 e nella «Milano da bere», slogan coniato per la pubblicità di un noto amaro poi divenuto il manifesto di un'epoca, si vive bene ma si può morire male. Assassinati. Come Clotilde Fossati, per tutti Tilde. Da quando è nata, inizio secolo, Tilde ha sempre vissuto nello stesso appartamento, al 36 di corso di Porta Nuova; prima con i genitori, poi col marito, infine sola. Lì si sente a casa. Ma quella casa gliela vogliono portar via; lo stabile è stato rilevato da una finanziaria che ha cacciato, uno dopo l'altro, tutti gli inquilini per ristrutturarlo e vendere gli appartamenti, eccezion fatta per Tilde che non intende andarsene, neppure di fronte a uno sfratto notificatole quattro anni prima.

Ultima abitante di quell'edificio ormai desolato, vive barricata dal giorno in cui in sua assenza qualcuno entra in casa e le sottrae 300mila lire. Tilde fa sprangare le finestre con assi di legno e non dimentica mai di chiudere a chiave la doppia porta: la prima blindata, la seconda a vetri. Una fortezza inespugnabile, dove entrano poche persone: la sorella Maria, la nipote Marisa, la donna delle pulizie. Neppure le ragazze e i ragazzi ai quali impartisce lezioni di piano sono autorizzati. È lei a recarsi da loro. A ottant'anni suonati è ancora vitale e attiva, le basterebbe la pensione del marito ma continua a insegnare musica con la passione di sempre. Allegra e affabile ha un unico tarlo: la paura di perdere casa. Paura divenuta forse rassegnazione quando fissa un appuntamento con un agente immobiliare per visitare un appartamento non lontano dal 36 di corso di Porta Nuova. A quell'appuntamento non andrà mai. La mattina di venerdì 10 giugno Tilde è in casa. Con lei la donna delle pulizie. Alle 11 riceve la telefonata di un'amica, alle 12.55 è al telefono col suo avvocato, circostanza confermata dalla deposizione della geometra della società immobiliare proprietaria dello stabile, che alla stessa ora aveva chiamato la Fossati trovando occupato.

Alle 13 la geometra riprova: libero, nessuno risponde. Chiama anche la nipote Marisa, ma l'apparecchio squilla a vuoto. Tilde aveva in agenda una lezione di piano, ma non si presenta. Il motivo se lo chiede anche Marisa non riuscendo a spiegarsi perché la zia ormai irreperibile non abbia disdetto il suo impegno. Chiama i pompieri e va a casa di Tilde. È la tarda sera di sabato. I vigili del fuoco giungono sul pianerottolo e scoprono che la porta blindata è aperta. L'altra, quella a vetri, socchiusa. Marisa non entra, temendo qualcosa che i suoi occhi non vogliono vedere. Il corpo senza vita di Tilde giace supino in una pozza di sangue nel salotto. Ha il cranio sfondato, il torace e l'addome trafitti da almeno dieci coltellate. Sul suo corpo nessuna traccia di violenza e sul pavimento le armi del delitto: un coltello da cucina con lama da 16 centimetri e la pesante bottiglia di liquore in vetro, con cui il killer ha colpito al volto la vittima, sfigurandola.
Su un tavolinetto, poco distante, una bottiglia di amaro «Strega», due bicchierini e un posacenere con due mozziconi di Marlboro. Tuilde non soltanto conosceva l'assassino, ma lo conosceva così bene da offrirgli persino da bere, segno che da lui (o lei?) nulla aveva da temere. In casa tutto risulta in ordine, solo un quadro è stato rimosso da una parete e appoggiato sul pavimento. Forse l'assassino, esaurito il raptus omicida, ha cercato la cassaforte, di cui conosceva l'esistenza ma non l'ubicazione e, quando l'ha trovata, non l'ha neppure aperta. Non si è trattato quindi di una rapina finita male, anche se il killer ha portato via una borsetta grigio perla con chiavi, documenti e libretto degli assegni della Fossati, per poi abbandonarli in un cestino dei rifiuti tra via San Marco e via della Moscova.

Uno spazzino la ritroverà intorno alle 14.50 di quel venerdì, consentendo agli inquirenti di ricostruire la tempistica. Clotilde Fossati è stata uccisa tra le 13 e le 14.30. Alle 12.55 sta parlando al telefono con l'avvocato e poco dopo qualcuno bussa alla porta. Tilde apre, fa accomodare l'ospite in salotto e offre da bere: una conversazione serena e amichevole. Nessun segno di colluttazione o effrazione. L'ipotesi più plausibile è un raptus improvviso e irrefrenabile: approfittando di un istante di distrazione della vittima, il killer si guarda intorno e, adocchiata la pesante bottiglia, colpisce Tilde al volto, fracassandole il cranio. La donna si accascia, l'assassino va in cucina, trova un coltello, torna in salotto, si china sulla vittima agonizzante, la trafigge al torace e all'addome e si allontana lasciando il sangue della dona su pareti e soffitto.

Nessuno lo vede. Nello stabile non ci sono inquilini e operai, in pausa per il pranzo. Tutti, eccetto uno: Antonio G., 42 anni, di Trani. Su di lui si concentrano i sospetti, specie per quanto emerso nell'interrogatorio: Antonio dapprima nega di aver mai conosciuto Tilde, poi ammette di essere stato a casa sua in almeno tre occasioni per alcuni lavoretti che la signora gli aveva commissionato. L'accusa non regge, la polizia non trova riscontri: l'assassino si è inevitabilmente macchiato di sangue, ma sugli abiti del manovale non c'è traccia. Il vice dirigente della Mobile, Gaetano D'Amato e il pm Corrado Carnevali, sanno che il killer va cercato tra le conoscenze della Fossati, ma chi di loro poteva volerla morta? E perché? L'unico movente lo avrebbe la società immobiliare che aveva acquistato lo stabile e aveva già rivenduto l'appartamento della Fossati ancor prima di liberarlo dall'ostinata presenza di quell'anziana, pensano gli inquirenti. Il rischio di veder sfumare un affare già concluso con l'acquirente che aveva minacciato di recedere dal contratto, chiedendo indietro la caparra sembra l'unica via. Alla geometra che aveva chiamato Tilde quel venerdì, era già capitato di discutere in toni accesi con la donna. Quella mattina potrebbe averle fatto visita per tentare di convincerla e, all'ennesimo rifiuto, ha perso la testa e l'ha uccisa. Ma la geometra ha un alibi di ferro, verificato e confermato dalla polizia. Chi allora? Il mistero è tuttora irrisolto.

Nel 1988 il test del Dna non esisteva per l'investigazione criminale, la scienza forense era agli albori. Sarebbe stato sufficiente analizzare quei mozziconi di Marlboro che l'assassino aveva spento nel posacenere per estrarre il suo corredo genetico e scoprire l'identità. Ma questa è un'altra storia...

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