Quando il Duce e i terroristi entrarono in Arcivescovado

Oggi la via a fianco del Duomo è dedicata al cardinal Martini Ieri ospitò un set cinematografico e Prima linea rese le armi

Quando il Duce e i terroristi entrarono in Arcivescovado

Era. E rimase. Per sempre. Uno sconosciuto. Venticinque anni avrà avuto. O forse trenta. Non certo di più. Viaggiava sul metro e ottanta e il timbro della voce non si conosce. Perché non parlò. E non lo si rivide mai. Era il 1984. E quel 13 giugno tirava un venticello che attutiva il peso dei 26 gradi scarsi. Non si soffriva caldo, insomma. Eppure a Paolo Cortesi, di mestiere monsignore, la temperatura bruciò le viscere davanti a quel giovane che entrò in Arcivescovado e, senza proferire parola, vomitò davanti al prete due kalashnikov. Un fucile. Un moschetto. Tre rivoltelle. Un razzo. Quattro bombe a mano. Due caricatori. E 150 proiettili.

In silenzio era venuto. In silenzio se ne andò.

L'altro - attaccato a un filo come lo si era allora, nell'età delle caverne della telefonia - ammutolì. E sbiancò. Il suo interlocutore intuì che qualcosa doveva essere accaduto, ma cosa successe lo venne a sapere dal telegiornale. Perché don Paolo si diresse immediatamente dal cardinale di cui era il segretario. Carlo Maria Martini, con flemma savoiarda, guardò quell'arsenale e alzò la cornetta. Convocò il prefetto, Enzo Vicari, pietrificato davanti a quella santabarbara, che di santo non aveva nulla. Le armi furono affidate alla polizia e a quell'omino siciliano, un po' pelato ma tutto d'un pezzo, nato l'anno della marcia su Roma, frullarono in testa due preoccupazioni. Da quale punto iniziare le indagini e come tenere tranquillo il prelato.

A entrambe provvide il porporato stesso. In primo luogo perché non si agitò affatto e quindi si tenne calmo da solo. Secondariamente perché la provenienza di quell'arsenale la intuiva facilmente. E stava in una lettera, firmata da un detenuto di San Vittore. Ernesto Balducchi era un pesce piccolo nel mare magnum di Prima linea. A Padova, Ezio Riondato - docente di Filosofia morale - visse e morì. Ma fu anche ferito. Il 22 aprile del '78, al Liviano, per sua disgrazia s'imbatté nel Balducchi, con un quarto di secolo sulle spalle e una pistola in mano. Sparò allo Stato. E colpì alle gambe l'ordinario, in cui vedeva il presidente della Cassa di risparmio e il consigliere di amministrazione del Gazzettino. Ma poi fu tra i primi a pentirsi. «Voglio essere un uomo» scrisse all'arcivescovo. E lui lo prese per mano. La consegna di quei tre sacchi fu il segnale che qualcosa stava cambiando davvero. E gli anni di piombo, almeno a Milano, finirono quel giorno. Nella via oggi intitolata proprio a Martini. In Arcivescovado. Dove, sembrerà strano, ma i violenti erano di casa.

Il palazzo in cui oggi abita Angelo Scola è equipaggiato di patrie galere, fortemente volute da Carlo Borromeo a metà del Cinquecento. Ogni cella porta il nome di un santo ma non tutte hanno la fortuna di vedere il sole a scacchi. Ce ne sono di totalmente buie. E un paio profumano di beffa. La più alta è denominata «Il paradiso», ma di celestiale non ha nulla. Inferno capovolto. Puzza di morte come la 13. Lugubre e tetra da non meritare patroni, se non quel numero. Icona di maledizione nei secoli. Da quell'ultima cena in cui Cristo, tredicesimo commensale, iniziò la via crucis.

Nelle prigioni dell'ex palazzo Ducale marcirono pendagli da forca che il boia non risparmiò. Quando l'incappucciato macellaio staccò la testa a Carlo Sala si mise in tasca sei lire. Era il 1775 e la folla era entusiasta. Quel pretonzolo rinnegato che buttò la tonaca alle ortiche per farsi calvinista era in uggia a tutti. E l'aveva pagata. Non certo per l'apostasia su cui si sarebbe pronunciato il Padreterno, quanto per i furti sacrileghi con i quali depredò 38 chiese del Milanese. E se ne inorgoglì. A quell'avanzo di galera venne in soccorso un duca. La stranezza era che Gian Galeazzo Serbelloni, tutt'altro che un tenerello, era il maestro di campo della Milizia cittadina. Leggasi, la polizia. Aveva simpatie napoleoniche e ideali incorruttibili, forgiati con cura dall'abate Parini, «precettor d'amabil rito» e raffinata ironia che non scendeva a patti. Il nobile mise sul piatto una fortuna per salvare quel furfante. E nessuno ne capì il motivo. Calò centomila lire per rifondere i danni alle parrocchie visitate da quel topo d'altari e in cambio pretese che si pentisse. Ma il ladro andò per le spicce e, rivolto al carnefice, liquidò il tutto con cinque parole: «Fa' il tuo sporco lavoro». Dicono che il corpo fu gettato in terra sconsacrata, «nelle foreste fra il Ticinese e il Vercellino». E che i milanesi disertassero perfino i dintorni di quella sepoltura, da quando qualcuno avvistò demoni che sputavano fuoco dalle orrende fauci.

Negli anni Settanta del Novecento, Milano si era allargata. E lungo via Arcivescovado correva ancora il tram. Il 23 verso Cinque giornate. Il 24 verso viale Corsica. E naturalmente il 13. Perché era destino. Andavano a passo d'uomo per colpa degli ingegneri. Dissero che la velocità su rotaia faceva male alla cattedrale e ad antiche vacillanti fondamenta. Finì che li deviarono e ne estirparono i binari. Poi i tecnici morirono e il Duomo si è rifatto il trucco. Bianco, come nel Trecento. Ma in tutti quegli anni fioccarono liti. Sulle rotaie stava la gente. In piedi. In coda. Soprattutto a ottobre. Doveva entrare nel portoncino sul fianco del palazzo. Pertugio di conoscenza. C'era la libreria meglio fornita. E alla Sei tutta Milano ordinava i libri di scuola dei figli. Immancabilmente, ogni autunno era una via crucis di attese. Le file sembravano adunate sediziose. Non c'erano numerelli a scandire i turni. Puntuali solo i diverbi. Ci si mettevano pure i tranvieri, quando passare non si poteva. Si maledirono roteando lo sguardo anche quando comparve il cinema. Il duro Rod Steiger, truccato come Benito, era atteso in cima allo scalone da Henry Fonda, negli abiti cardinalizi di Schuster. Sotto lo sguardo vigile di Carlo Lizzani. Il set di Mussolini ultimo atto era lì. Lì, per ricordare che il Duce, quello vero, nel palazzo voluto da Giovanni Visconti nel 1339, ci era salito in carne e ossa. L'arcivescovo tentò una mediazione tra il despota e i partigiani. Lo invitò a soggiornare. A consegnarsi agli americani sotto la sua tutela. Ma «Buonanima» si rifiutò. E in Arcivescovado non mise più piede.

Qualche giorno dopo fu assassinato. E impiccato. A scendere le scale fu Schuster. Stavolta. Nell'abito talare del porporato. E benedì le salme. Perché come scrisse di suo pugno al prefetto Lombardi, «si deve rispetto a qualsiasi cadavere». E così sia.

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