Quegli artisti europei stregati dal Sol Levante

Al Mudec due mostre sugli scambi culturali che influenzarono pittura, moda e design

Mimmo di Marzio

Forse mai come quest'anno la stagione espositiva del Comune di Milano è iniziata col botto. Dopo l'inaugurazione della grande retrospettiva dedicata a Giorgio De Chirico a Palazzo Reale, anche la nuova stagione del Mudec debutta con un progetto scientificamente ricco e soprattutto finalmente in linea con l'identità di un Museo delle culture extraeuropee. Le due mostre di «Oriente Mudec» - dedicate alle contaminazioni tra Giappone e arte europea germogliate alla fine del XVI secolo ed esplose tre secoli più tardi nel giapponismo della Belle Époque - rappresentano un percorso accattivante costruito, beninteso, in buona parte con materiale della collezione dello stesso Mudec e di altre istituzioni milanesi, in primis la galleria d'Arte Moderna e persino la Scala. A dimostrazione che l'attività espositiva pubblica può fare cultura anche senza ricorrere a immensi budget o a nomi di cassetta che poco hanno da aggiungere senza veri capolavori. Qui al Mudec un piccolo capolavoro è stato compiuto dai curatori Flemming Friborg e Paola Zatti; insieme hanno dato vita a un viaggio nel tempo e nello spazio che, fin dal mito di Marco Polo, affascinò mercanti, nobili, artisti, religiosi e ricchi viaggiatori in cerca di esotismo. Ma fu amore ricambiato perchè, come ben illustra il progetto, anche l'algido impero degli Shogun non era immune dal fascino di quel lontano Occidente rappresentato agli inizi dai missionari gesuiti stanziatisi alla metà del '500 nell'area di Nagasaki. La prima delle due mostre racconta infatti del passaggio in Italia di due delegazioni di giovanissimi ambasciatori giapponesi cristianizzati e desiderosi di conoscere la culla del Rinascimento. Fu quello, documentato anche da un ritratto di uno dei principi nipponici per mano di Domenico Tintoretto, il primo abboccamento tra le due culture e certo lasciarono il loro segno estetico i bauli e i leggii orientaleggianti intarsiati di madreperla come pure le preziosissime porcellane dalla formula misteriosa. Ma perchè si compisse il vero abbraccio si dovettero aspettare due secoli e mezzo quando, nel 1853, ebbe fine l'oscura politica di isolamento (sakoku) che aveva chiuso i porti del Giappone agli stranieri (corsi e ricorsi). Da allora, per oltre mezzo secolo, si verificò un vero e proprio boom inizialmente mercantile legato ai manufatti e soprattutto alla seta, ma che contagiò presto tutto il gusto occidentale, dalla pittura alla letteratura, dalla musica alla scenotecnica, dalla moda alle arti decorative. Ciò che si verificò è il cosiddetto fenomeno del giapponismo che sfociò anche in opere liriche come Madame Butterfly di Puccini, nell'architettura liberty, e negli arredi decò che spopolarono negli anni Venti, da Parigi a Milano. Se la prima mostra è una wunderkammer di oggetti tradizionali, bronzi, porcellane e stampe del periodo Edo raccolti da collezionisti europei come il milanese Giovanni Battista Lucini Passalacqua (fondatore del «museo giapponese» poi acquisito dal Comune di Milano), nella seconda esposizione campeggiano 170 opere di grandi artisti europei folgorati sulla via del Giappone. Influenzati dal japonisme di fine '800 furono soprattutto i pittori francesi, da Monet (quello delle Ninfee appunto) a Gauguin, da Fantin-Latour a Toulouse-Lautrec. Prospettive essenziali, taglio fotografico, colore piatto e sinuosità delle linee erano stilemi di influenza ukiyo-e a cui non sfuggì neppure Van Gogh.

Ma anche artisti italiani «francesizzati», come De Nittis o Zandomeneghi sposarono il giapponismo; il primo fu così influenzato dalle vedute del monte Fuji di Hokusai da riproporle, nel suo soggiorno napoletano, in... versione Vesuvio.

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