Da vecchio simpatizzante del Napoli calcio (mio zio Gianni sedeva in panchina ai tempi di Ferlaino), mancavo dagli spalti di San Siro dall'epoca di Maradona. Più comodo e conviviale il divano in compagnia davanti a qualche scaramantico manicaretto della tradizione, in una mano il telecomando e in un'altra, magari, un amuleto. In realtà avevo giurato a me stesso di non mettere più piede allo stadio, non perchè non ne subissi il fascino, quanto perchè stufo di guardare la mia squadra del cuore con il sottofondo di quegli inossidabili cori inneggianti all'eruzione del Vesuvio, al terremoto e all'utilizzo del sapone per i fortunati reduci del colera. Cori che, dopo circa trent'anni, sono rimasti inossidati e intonsi nelle strofe e nelle rime: sopravvissuti al nuovo millennio, alle Torri Gemelle, alla scoperta dell'acqua su Marte e all'avvento di internet. Testardo come un mulo (ben mi sta) l'altra sera ho incassato l'ennesima inutile conferma: la partita, se proprio si deve, è molto meglio guardarla in tv e non in un sito, lo stadio, ricettacolo di ignoranza e stupidità dove mai porterò i miei figli. Ne ho avuto la conferma non tanto per gli ormai folcloristici cori sul colera (li intonava anche un ministro italiano), che anzi mi hanno riportato a una più verde età. E neppure per gli agguati demenziali identici a quelli di 30 anni fa e soltanto in Italia mai stroncati a dovere tra l'indifferenza delle società di calcio.
I «buu» gridati per tutta la partita contro un atleta di colore, non da uno sparuto gruppo di imbecilli ma da un buon terzo dello stadio, è qualcosa di molto peggio che 30 anni fa non accadeva. E va a merito del sindaco Sala essersi assunto l'onere di chiedere scusa.
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