Quando l'operaio metalmeccanico di terzo livello Carrisi Albano si presentò in reparto alla Innocenti di Lambrate sventolando il contratto appena firmato con una casa discografica, i compagni di catena di montaggio -abituati e quasi affezionati alle esibizioni canore del ragazzotto pugliese - gli dissero: «Ma sei matto, lasci un posto sicuro per andare a fare l'artista?». Beh, lui divenne Al Bano e sposò Romina Power. L'Innocenti invece di lì a poco entrò nel tunnel da cui non sarebbe più uscita. Crisi dell'auto, crisi di idee, di capitali. Ci provò per un po' quel gaucho di Alejandro De Tomaso: arrivarono la Mini a tre cilindri, la Maserati Biturbo. Ma ormai l'avventura dei capannoni di via Rubattino era destinata a chiudere.
Era iniziato tutto poco prima della guerra, quando Ferdinando Innocenti, toscano di Pescia, era arrivato a Milano da Roma dove aveva già impiantato una fabbrichetta di tubi: tutto nasceva da una intuizione geniale, il giunto che con due colpi di chiave inglese permetteva di attaccare praticamente all'infinito un tubo all'altro. Nel 1944 gli Spitfire inglesi rasero al suolo la fabbrica di Lambrate, per il buon motivo che lo stabilimento si era allargato alle produzioni belliche. Ma Innocenti non si perse d'animo. E due anni dopo, a guerra finita, non si limitò a ripartire con la produzione di tubi: dalle truppe d'occupazione, rubò l'idea del primo scooter. E, siccome lì a due passi scorre il Lambro, lo battezzò Lambretta.
Dagli inglesi, invece, pochi anni dopo prese la licenza per produrre un'auto dalle dimensioni infinitesimali: diverrà la Mini Innocenti. E non gli bastava ancora: espanse ancora i capannoni, e aprì una divisione di meccanica pesante. Dell'autunno caldo milanese, anno 1969, gli operai di via Rubattino furono uno dei poli avanzati: insieme alla Breda, alla Pirelli, alla Falck e all'Alfa, l'Innocenti era uno dei tempi dell'aristocrazia operaia meneghina, teatro di scontri frontali ma anche di grande rispetto verso il fondatore.
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