A chi sta fuori sembra che in carcere il tempo non passi mai e, soprattutto, che non accada nulla. E non solo a chi per ovvie ragioni ci deve stare, ma anche a coloro che ci lavorano. Ci si rende conto che questo mondo parallelo - così sommerso e per troppi versi sconosciuto - palpita di vita propria e vibra di emozioni di ogni genere, solo quando viene rischiarato dalle luci dei riflettori, comprensibilmente non troppo gradite ai suoi «abitanti», grazie ad arrivi (e magari ritorni) d'eccezione. O per vicende amare, di vita e purtroppo anche di morte.
Sotto questo profilo c'è stato un periodo eccezionale a San Vittore. A cominciare, andando in ordine temporale, da mercoledì 20 marzo, quando in serata è arrivato Ousseynou Sy, l'autista quarantaseienne di origine senegalese che quella mattina aveva preso in ostaggio 51 allievi di seconda media, due insegnanti e una bidella della scuola di Crema «Giacomo Vailati» dirottando il loro autobus sulla Paullese, per poi dargli fuoco. All'interno del carcere, portato in quello che viene considerato un circuito chiuso ma comune, nel quinto raggio, Sy non ha potuto rimanere. Quella prima notte trascorsa «in gabbia» non se la scorderà facilmente visto che la porta della sua cella è stata bersagliata da lanci di uova e arance. Ogni universo ha le sue leggi e il suo dio, seppur minore. E per gli altri detenuti di San Vittore quel che il nuovo arrivato aveva fatto ai ragazzini era «deprecabile». Così la direzione ha valutato di spostarlo subito, la mattina successiva, nel circuito dei «protetti», i detenuti che hanno commesso gravi reati di «disapprovazione sociale», come pedofili, stupratori di ogni tipo o collaboratori di giustizia. Solo lì ha potuto ripetere incessantemente e soprattutto senza rischiare la pelle, la sua litania: «Mi sono sacrificato per l'Africa».
Dopo qualche giorno, lunedì 25, a una settimana dall'omicidio della sua donna, la cinquantaquattrenne milanese Roberta Priore, il rimorso ha avuto la meglio su Pietro Carlo Artusi, 48 anni, che si è tolto la vita in carcere. L'uomo aveva già tentato di farla finita subito dopo aver soffocato la compagna, nell'appartamento della donna in via Piranesi, staccando i tubi del gas, ma poi aveva abbandonato l'abitazione, per essere quindi arrestato. Aveva confessato Artusi. Confinato in una cella cosiddetta «a rischio» dove veniva seguito con cura, l'uomo era considerato però «a basso rischio», perché non aveva manifestato volontà suicide, ma non ha retto. Poco dopo le 21, usando il lenzuolo come corda, in una manciata di attimi è accaduto quello che il personale definisce l'«imponderabile»: si è impiccato alle sbarre della finestra. Era da più di un anno che a San Vittore - carcere dove storicamente si lavora molto sul «rischio suicidario» - qualcuno non si toglieva la vita.
Il carcere, però, è popolato da un'umanità piuttosto varia. E proprio in quelle stesse, drammatiche ore, nella struttura penitenziaria si svolgeva l'ennesimo capitolo di un'arcinota saga, di ben altro tenore: quella di Fabrizio Corona, «tornato» a San Vittore giusto in tempo per compiere 45 anni.
Compleanno amaro per lui, giunto tra le mura di piazza Filingeri «provato, depresso e bisognoso di conferme» dopo che il magistrato del tribunale di Sorveglianza aveva sospeso l'affidamento terapeutico concessogli per curarsi dalla dipendenza psicologica dalla droga e che gli aveva permesso di lasciare San Vittore nel febbraio dell'anno scorso. Corona è stato riportato nella stessa cella del terzo raggio. E da lì fa sapere di essere «pronto a reagire» e a non lasciarsi più andare a «eccessi e a comportamenti sopra le righe».
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