San Siro aspetta i Giochi Poi forse vivrà nel mito

La Scala del calcio è nata nel 1926 e ha ospitato due Pontefici: cent'anni dopo qualcuno vuole demolirla

San Siro aspetta i Giochi Poi forse vivrà nel mito

L'arbitro aveva già il fischietto in bocca. D'altra parte mancava un pugno di secondi alla fine del derby. L'Inter teneva stretto il vantaggio con i denti e lui, Concetto Lo Bello, invece di accompagnare il triplice sibilo alle mani protese verso gli spogliatoi, fischiò indicando il rigore. Su San Siro calò lo sconforto nerazzurro e la speranza rossonera. Scoppiarono proteste e si accapigliarono tutti. Con due eccezioni. Tito Cucchiaroni, argentino. Di professione, 11 del Milan. Piazzò fieramente il pallone sul punto di battuta e guardò la Fossa della Sud. Ridendo. Benito Lorenzi, bischero toscano naturalizzato milanese, di mestiere 10 dell'Inter. Aveva sete. Andò dal massaggiatore e non trovò acqua ma mezzo limone. Lo succhiò fino all'anima e scattò l'ultima monelleria. Mentre tutti litigavano corse al dischetto, sollevò la sfera e nascose la buccia. Poi rimise tutto a posto. E, sogghignando, si allontanò.

Dalle tribune, dove avevano assistito al trucchetto, piovvero fischi. La torcida dei casciavit inveì contro il rivale per avvertire della burla il Cucchia che, sussiegoso quanto ignaro, si apprestava alla rincorsa. Sergente Lo Bello aveva visto tutto, tranne quello che avrebbe dovuto vedere. E Lorenzi si godeva lo spettacolo. L'11 partì. Finta. Matteucci spiazzato. E palla fuori di sei metri. Dalla Nord fu un boato, all'arbitro non restò più tempo. Il primo a imbucare il tunnel fu «Veleno», il diavoletto nerazzurro che sconfisse il Diavolo vero, procurandosi un rigore e facendo fallire quello degli avversari. Si fiondò negli spogliatoi per evitare il peggio, a cui peraltro era abituato, in quella carriera costruita sulla classe cristallina e la linguaccia tagliente che stizziva i rivali. «Marisa», affibbiato al permaloso Boniperti, lo inventò lui. «Veleno», il suo soprannome, invece lo coniò sua madre che - fin da piccino - aveva capito con quale scugnizzo avesse a che fare. Benito non era un omaggio al Duce, cui Lorenzi fu sempre fedele a Salò e nella X Mas, ma dal papà, un sinistroide al quale il regime chiuse la panetteria. Quel giorno il 10 nerazzurro sparì da San Siro, mentre i tifosi sciamavano tra sfottò e ira vera. Felicità specchiata nelle lacrime.

Era il 6 ottobre del '57, quinta di un campionato che alla storia consegnò solo quel derby. I sessantamila intasarono i tram. Le macchine erano poche e chi puntava verso piazzale Lotto per vedere la Simmenthal non ne aveva bisogno. Altro sport. Altre contese. Altro stadio. La Scala del calcio era il cuore di Milano. Una sorta di locale casalingo dove le famiglie si accapigliano. E i cugini pallonari delle due rive del Naviglio se ne facevano e dicevano di tutti i colori, che poi erano sempre e solo tre. Rosso. Nero. Azzurro. Perché il derby della Madonnina è la madre di tutte le partite. Più di Italia-Brasile. E Italia Germania 4-3. L'unica senza invito è la violenza. Inter e Milan non si sono mai risparmiate. A parole. Schiaffi tanti ma solo ironici.

E su quelle carrozze del 15, ansimanti e sferraglianti, fiorivano amori. Trasversali. Filtravano dai ricordi alla carta. Alla musica. Milena, la morettina rossonera, aveva fatto gli occhi dolci mentre gli altri si erano portati in vantaggio. E Adriano, molleggiato e nerazzurro, se n'era accorto. «Se non sbaglio lei ha visto un Inter-Milan con me, ma come fa lei a non ricordare. Eravamo in centomila allo stadio quel dì». Approcci ruspanti, in anticipo su Sessantotto e femministe. Lui l'aveva seguita sul tram e ci aveva provato. «Lei ha segnato un gol nella porta del mio cuor». E quella ragazza sorrise. Poesia di un tifo casereccio che incendiava sentimenti da una curva all'altra. I centomila, San Siro non li ha mai visti. Nemmeno tuttora. Ma è bello crederci. Su e giù da quegli anelli dal pian terreno ai popolari erano in tanti. E il numero sapeva di suggestione. Adriano aveva smesso presto di salire sul tram e, a Crescenzago, a prendere la sua Milena ci andava con la Ford. La Thunderbird da museo del «tu vuo' fà l'americano, ma sei nato in Italy». E in via Padova, quella macchina, non l'hanno più rivista. Ma al ragazzo della via Gluck era rimasta la nostalgia e il Meazza lo consacrò in sette note. Come merita un tempio. Eppure «Eravamo in centomila» era solo un lato B che oggi è un'altra cosa ma allora rappresentava il retro di un 45 giri. L'ultimo derby prima di quella canzone finì 1-0 per l'Inter. Come nel '57. Con il limone al «veleno». E nel '65, quando l'Inter ebbe in sorte il regalo di una finale di coppa dei Campioni in casa contro il Benfica di Eusebio. E riempì San Siro.

Anche quella volta, centomila fu un generoso arrotondamento. Era un 27 maggio di diluvio torrenziale, Jair spedì a casa i lusitani con le pive nel sacco e Picchi riempiva di pioggia e gioia il secondo trofeo nerazzurro. Tra sorrisi e amori, il Meazza scattava istantanee. Aveva quarant'anni. E quarant'anni dopo fece piangere l'Inter nel derby dei pareggi che nel 2003 premiò il Milan. Rivalsa postuma e millenaria per Piero Pirelli, l'industriale della gomma che voleva sottrarre Milano al provincialismo. Nel '25 era presidente rossonero e costruì lo stadio con soldi suoi. Fu una stracittadina a inaugurarlo il 19 settembre del '26 ma vinse l'Inter e gli rovinò il pomeriggio. Era il nucleo embrionale di ciò che poi diventò. Non solo sport. Non solo calcio. Il 27 giugno 1980 era venerdì. Un aereo scompariva nel cielo di Ustica mentre San Siro apriva le porte alla musica per la prima volta. Brillò la stella di Bob Marley. No woman no cry era il nuovo che avanza. Donne e pianti. Anime di casa su quegli spalti. L'armonica di Dylan e la gabbia dei Genesis. La vita spericolata di Vasco e due papi che hanno incontrato i cresimandi. Da tempio del calcio a tempio di culto il passo non è stato breve e per quell'«astronave atterrata in un quartiere residenziale» da galassie lontane si profila la demolizione dopo le Olimpiadi 2026. Arriverà il tedoforo. Accenderà un braciere.

Poi il Meazza cederà il posto a un clone. Senza storia. Senza cuore. Come i soldi di cinesi e americani che hanno sposato quelle nobili strisce. Rosso. Nere. Azzurre. E tra le «preghiere» del rito laico del pallone spunterà una lacrima.

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