Con la nascita della regia critica, la messinscena acquistò una vita autonoma, evidenziando una sua specificità, un suo linguaggio fatto di idee, di concetti che trovarono la forma espressiva sul palcoscenico e la concretezza tra le quinte, le luci, i costumi, la scenografia diventata, anch'essa, disciplina autonoma, proprio come la regia. Questo breve preambolo per parlare di un libro edito da Skirà di Ezio Frigerio: Cinquant'anni di teatro con Giorgio Strehler che è anche un documento, non soltanto di spettacoli oramai leggendari, ma di come si possa continuare a lavorare attorno a essi, persino dopo la sublimazione storica, dato che Frigerio ha creduto che quelle scenografie non fossero del tutto finite e che, nel riprodurle in immagini, ha voluto - ritoccandole - togliere alcuni difetti del tempo passato, aggiungere qualcosa che gli era sfuggita e ricostruirle con i suoi ricordi.
Il volume contiene le scene che vanno da Arlecchino servitore di due padroni, a Così fan tutte, attraversa, quindi, cinquant'anni di lavoro che aveva cambiato la scenografia italiana del primo Novecento, alquanto sovraccarica ed esagerata nelle sue paccottiglie, perché tendeva più che altro alla decorazione, trasformandola in una scenografia semplice, capace di assemblare dei concetti e dei segni che rimandassero all'interpretazione registica e che contribuissero alla specificità del linguaggio scenico, alla sua diversità rispetto al testo. A guardare le immagini, sembra che tutto sia il frutto della collaborazione tra due menti geniali, in verità, le scene che vediamo riprodotte furono il risultato di dissensi, di liti, di lettere infuocate, di scontri verbali, di invettive, di quel travaglio che solo un teatro d'arte riesce a trasformare in un esempio perpetuo.
Chi non ricorda le scene di Re Lear, de I giganti della montagna, del Temporale, di Come tu mi vuoi, delle Nozze di Figaro, del Lohengrin? Solo per citare alcune pietre miliari; chi non rammenta quel gioco tra teatro e realtà, tra verità e visionarietà? Quelle scene fatte apparentemente di nulla, ma che contenevano il tutto? Nel Re Lear l'idea fu quella di un circo con un enorme tendone, con i costumi che andavano deteriorandosi, man mano che il potere si infognava in una melma composta da poltiglia di plastica mescolata con della sabbia di colore violaceo, pochi anni dopo si passò dal circo al luna park dell'Opera da tre soldi del 1972, completamente diversa da quella del '56, con le scene di Teo Otto, e dal luna park alla collina verdastra per I giganti della montagna, costruita con un praticabile di tavole e sul fondo un lenzuolo bianco, tagliato nel mezzo, come un quadro di Fontana che diventava, grazie a delle proiezioni, casa e mare.
Come dimenticare quel sipario di ferro che, alla fine dello spettacolo, tritura la carretta dei comici tanto che molti di noi uscirono dal Teatro Lirico con gli occhi rossi di commozione? Sono vette, forse, irraggiungibili, benché a queste vette si siano affacciati altri registi della generazione successiva, vette che divennero dei modelli, se non delle vere lezioni sul come fare teatro e su come aiutare gli altri a continuare a farlo su un terreno difficile, su cui non si può improvvisare, come a rammentare che il linguaggio scenico non è un linguaggio privato, che non appartiene a chi, sconsideratamente, lo ritiene un gioco personale, un «tanto per fare», proprio perché lo si raggiunge solo dopo tanto studio, dopo infinite ricerche che alternano la conoscenza accademica con quella dell'esperienza quotidiana, messa a confronto con i risultati raggiunti da un fervente lavoro intellettuale.
Questo ci hanno insegnato i due Maestri, questa è l'eredità che ci hanno lasciato, come dire che, senza la regia, senza un reale approfondimento
critico, il teatro è condannato a soccombere a pure banalizzazioni, a esperienze formali, quasi sempre pretenziose e falsamente intellettualistiche.Ezio Frigerio, «Cinquant'anni di teatro con Giorgio Strehler» Skira, p.170, 45.
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