La supercondanna a Daccò spiazza anche i pm che indagano su Formigoni

Non è solo Piero Daccò, nella sua cella del carcere di Opera, ad avere accusato il colpo di una condanna che indubbiamente si aspettava di ricevere, ma non di una simile devastante pesantezza. I dieci anni di carcere inflitti dal giudice preliminare Maria Cristina Mannoci al lobbista del San Raffaele costituiscono uno sconquasso anche per gli altri imputati delle inchieste sulla sanità lombarda, quelli ancora in attesa di giudizio, che si vedono parare davanti un fosco avvenire processuale. E, paradossalmente, costringono anche la Procura a rivedere la sua strategia. Perché la batosta rifilata a Daccò rischia di affossare quelle possibilità di dialogo con gli indagati cui i pubblici ministeri affidavano le loro speranze di fare passi avanti nell'inchiesta, ovvero di trovare gli elementi per incastrare il presidente della Regione, Roberto Formigoni, indagato per corruzione.
Il pool coordinato dal procuratore aggiunto Francesco Greco è consapevole che se si andasse oggi al processo contro Formigoni, il governatore «rischierebbe» di uscirne incolume per l'ennesima volta. Ed è un rischio che al quarto piano del palazzo di giustizia non vogliono correre. E siccome la Procura è convinta - a torto o a ragione - che solo da Daccò potrebbero venire gli elementi decisivi contro Formigoni, per questo a carico del faccendiere era stata avanzata una richiesta di pena non eccessiva. I cinque anni di carcere che i pm Luigi Orsi e Gaetano Ruta avevano chiesto per Daccò lasciavano aperta la porta ad una sorta di trattativa: cambiamento di comportamento processuale, concessione delle attenuanti generiche, sconto di pena in appello tale da poter evitare il ritorno in carcere. Tanto più che Daccò è atteso in tempi brevi da un altro processo, quello per i fondi neri della Fondazione Maugeri dove è indagato proprio insieme a Formigoni. «Non è - spiegava ieri una fonte vicina agli inquirenti - che un processo dopo l'altro possiamo arrivare a dargli l'ergastolo». Ma dosare gli anni di pena da infliggere a Daccò rispondeva, nell'ottica della Procura, non solo a un banale criterio di buonsenso e di equità, anche a una precisa strategia.
La sentenza choc della Mannoci ha fatto irruzione in questo scenario con la grazia di un elefante in una cristalleria. Che un giudice emetta una sentenza più severa di quella chiesta dalla Procura può accadere, anche se di rado. Ma che addirittura raddoppi la pena indicata dai pm è un evento più unico che raro. E che mette la Procura in una situazione imbarazzante. Difficile ipotizzare che i pm si convincano di essersi sbagliati, proponendo per Daccò una pena più lieve di quella giusta. Entrambi i pubblici ministeri sono convinti che quindici anni di carcere (questa è la pena emessa dal gip, ridotta a dieci per lo sconto del rito abbreviato) sono in genere una pena per omicidio e non per una sottrazione di capitali, per quanto ingente.
Insomma, fucilando alla schiena l'unico possibile supertestimone, il gip potrebbe avere fatto (involontariamente, s'intende) un brutto tiro anche ai pm. Il come e il perchè il giudice sia arrivato a prendere questa decisione si capiranno solo tra novanta giorni, quando la Mannoci depositerà le motivazioni della sua decisione. Daccò farà sicuramente appello.

Ma l'impatto psicologico della sentenza sta, verosimilmente, già facendo sentire i suoi effetti in queste ore. Perché la sentenza dell'altro ieri è un tale macigno che né pentendosi né dissociandosi Piero Daccò può essere sicuro di toglierselo di dosso.

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