Cronaca locale

Il teatro «alla milanese» riscoperto da Strehler ora ha perso la lingua

L'età d'oro del nostro dialetto finita nel 1998 Poi hanno preso le scene calabrese e siciliano

Il teatro «alla milanese» riscoperto da Strehler ora ha perso la lingua

Andrea Bisicchia

In un vecchio saggio, Dialettalità, Luigi Pirandello sosteneva che questa sia concepire come un vero e proprio idioma, da intendere, quindi, come una autonomia linguistica, a cui si deve la continua vitalità della parola. Questa qualità appartiene a tutte le Opere che hanno cercato o che cercano di utilizzare un lessico non usurato, attraverso l'uso della dialettalità, che è ben diversa dal dialetto. Lo capì Strehler quando mise in scena El nost Milan, riscoprendo un Bertolazzi inedito, perché, da tempo, era stato racchiuso nel recinto del dialetto, testo che il regista riprese più volte, dopo il successo del 1955, fino alla memorabile edizione del 1980.

La vera svolta avvenne con la trilogia di Testori, Ambleto (1973), Macbetto (1974), Edipus (1977), scritta per Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah, dovuta a quell'impasto linguistico, appartenente al dialetto degli Scarrozzanti. Sulla scia di Testori, Andrée Shammah ha, più volte, riproposto spettacoli della grande tradizione milanese, da Tessa a Bertolazzi , Lulù ( 2010), a Gadda, L'Adalgisa (1992), a Santucci, Noblesse Oblige (1993), a Carlo Maria Pensa, Dammatrà (1998), con Piero Mazzarella, vero custode del dialetto milanese. Da allora, la lingua lombarda è entrata in letargo, nel senso che non ci sono stati autori, se non filodrammatici, che siano stati capaci di identificare la lingua con la propria tradizione e di rinnovarne le strutture mantenendo i tratti costitutivi del linguaggio o aggiornarlo con gli innesti di cui fu capace soltanto Testori, con l'invenzione di fonemi e del multilinguismo. Un posto particolare occupa la Compagnia dei Legnanesi.

Dal 1998, il teatro a Milano ha perso la lingua ed ha delegato il dialetto ad altre regioni e ad altre compagnie: i palcoscenici cittadini, dal Piccolo Teatro, al Parenti, al Teatro dell'Elfo hanno ospitato compagnie provenienti dalla Sicilia, dalla Campania, le due regioni più consistenti per numero di produzioni, ma anche dalla Calabria. Le lingue, come è noto, si modificano perché, col tempo, si usurano, diventano uno strumento scordato. Questo non accade con la dialettalità che riesce a mostrare una sua autonomia, oltre che una sua originalità, intesa come origine di un modo di esprimersi che è anche un modo di comportarsi, tanto che il comportamento degli attori che recitano in lingua è ben diverso da quelli che recitano in dialetto. Si dice che la lingua sia in continuo movimento e, quindi, sottoposta alla medesima evoluzione dei generi, il dialetto, in verità, mantiene una sua codificazione, in quanto capace di analizzare l'esperienza umana in una unità più significativa, facendo ricorso alla lingua delle origini. Oggi, assistiamo a una continua mescolanza di linguaggi che si trasforma in una mescolanza di generi, con l'obiettivo della contaminazione, che rallenta l'invenzione linguistica vera e propria. Nelle due ultime stagioni abbiamo ascoltato il dialetto calabrese, con gli spettacoli di Saverio La Ruina, quello palermitano con i testi di Scaldati, messi in scena da VetranoRandisi, quello messinese con gli spettacoli di Spiro-Scimone. La parte da leone l'ha fatta il Piccolo Teatro, nelle sue tre sedi, con: Sanghenapule di Roberto Saviano e Mimmo Borrelli, di cui ci arrivano belle notizie dell'ultimo spettacolo: La cupa, grazie al suo dialetto barbarico, con la versione, nel dialetto camorristico, di Il sindaco del Rione Sanità, con la regia di Martone, con Questi fantasmi, esempio perfetto di cosa debba intendersi per Dialettalità, con la regia di Tullio Giordana, e con Bestie di scena di Emma Dante che, al silenzio dei corpi nudi, fa seguire brevi frammenti del dialetto palermitano. Per correttezza, cito una storia milanese, scritta da un triestino: Matilde e il tram per San Vittore, di Renato Sarti, andata in scena al Piccolo Teatro Studio Melato, con l'uso di un linguaggio dalla patina lombarda.

Si può dire che, se Milano ha perso la lingua, è stata generosa nei confronti degli altri dialetti.

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