Il vecchio boss dell'Autoparco dietro l'inchiesta Stato-mafia

Il vecchio boss dell'Autoparco dietro l'inchiesta Stato-mafia

Erano in parecchi, quel pomeriggio di ottobre del 1996, i magistrati che uscirono con le lacrime agli occhi dalla stanza di Francesco Saverio Borrelli, procuratore della Repubblica. Era appena arrivata la notizia della morte di Francesco Di Maggio, che da pubblico ministero aveva fatto la storia della Procura milanese, e che anche nel nuovo incarico romano di vicecapo delle carceri aveva mantenuto contatti assai stretti con i colleghi del nord. Ai funerali, pochi giorni dopo, c'erano quasi tutti.
Eppure oggi nemmeno una voce si alza dal palazzo di giustizia milanese, in questi mesi confusi, in cui il nome di «Ciccio» Di Maggio viene tirato in ballo - con la violenza riservata in Italia a chi non può più difendersi - per la presunta trattativa tra lo Stato e la mafia, l'inchiesta che a Palermo il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i suoi colleghi stanno conducendo sugli accordi che tra il 1992 e il 1993 avrebbero portato a un armistizio tra Cosa Nostra e le istituzioni. Di quella trattativa, sostiene la Procura palermitana, Di Maggio fu uno dei protagonisti. A Milano, se si chiacchiera a bassa voce, tutti dicono che è una bestialità. Che la sola idea che Ciccio Di Maggio potesse sedersi a tavola a scambiarsi cortesie con i mafiosi - lui, Di Maggio, un servitore dello Stato dalla durezza esemplare - non sta nè in cielo nè in terra. Ma se si chiede in giro di uscire allo scoperto, dicendo qualche parola in difesa del collega morto, tutti si tirano indietro. Per il banale motivo che davanti a un groviglio gigantesco come l'inchiesta sulla trattativa, che non ha risparmiato nemmeno il presidente della Repubblica, difendere Di Maggio vuol dire esporsi a rischi. Meglio stare zitti, e lasciare Milano fuori da questa storia.
Ma Milano, in questa storia, è destinata a entrare comunque. Perché qui hanno origine una parte delle manovre che oggi condizionano l'inchiesta palermitana. Manovre che risalgono indietro a vent'anni fa, al drammatico biennio 1992-93 oggetto dell'indagine di Ingroia. Questa continuità quasi inverosimile, ma certa e documentata, ha un nome e un cognome: Rosario «Saro» Cattafi, avvocato, ex militante dell'ultradestra, in odore di massoneria e uomo d'onore della famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto. All'inizio degli anni Novanta, Cattafi è a Milano: è alla testa del gruppo oscuro e composito di criminali che ha la sua base operativa nell'Autoparco di via Salomone. Un posto dove i clan si riuniscono, organizzano traffici, eseguono condanne a morte, oliano poliziotti. A indagare sull'Autoparco milanese arriva però la Procura di Firenze, insieme ai finanzieri del Gico. E prende di mira i magistrati milanesi che vengono accusati di avere coperto o tollerato quanto accadeva nell'Autoparco. A ispirare queste accuse, si dice già allora, è proprio Cattafi. Nel mirino, già allora, c'è - tra gli altri - proprio Francesco Di Maggio: che all'epoca lavora alla direzione delle carceri, dove si oppone alla abolizione dei trattamenti di massima sicurezza.
Nasce uno scontro frontale tra le procure di Milano e Firenze, Di Maggio pensa alle dimissioni, Borrelli prende le difese dei suoi pm, l'affare un po' alla volta si sgonfia. Nel 1996 Di Maggio muore. Ma i veleni restano in circolo, continuano a muoversi nell'organismo malato dove si incrociano Stato e Antistato.
Tre anni fa, a finire nel mirino dei veleni, è un altro magistrato del nord. Si chiama Olindo Canali, è monzese, si è fatto mandare a Barcellona Pozzo di Gotto per indagare sulla mafia: e ha arrestato Rosario Cattafi, che nel frattempo è tornato libero chissà come e fa il bello e il cattivo tempo in tribunale. «Canali è stato mandato qui da Francesco Di Maggio per insabbiare le inchieste», dice in giro Cattafi: che paradossalmente trova sponda nell'Italia dei Valori, il partito di Di Pietro. Il risultato è che Olindo Canali finisce sotto inchiesta ed è costretto a farsi trasferire a Milano.
Poi Cattafi viene di nuovo arrestato e, davanti a Ingroia, si mette a fare il pentito. E torna a gettare fango su Di Maggio. Fu Di Maggio, dice, a incaricarmi di promettere un trattamento più morbido a Nitto Santapaola se Cosa Nostra avesse scaricato gli stragisti.

E la Procura di Palermo rispolvera una vecchia intercettazione in cui la mancata cattura di Santapaola viene messa in relazione a «un blitz a Milano per droga». Davvero si può pensare che la memoria di Di Maggio possa essere lasciata sola?

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