VERSO LE COMUNALI

Sorrisi imbarazzati, frasi capovolte, messaggi ambigui, manifesti fai da te, slogan sbagliati grammaticalmente, «cretinismi» linguistici, campagne già viste, tante, troppe, facce in primo piano, simbolo del narcisismo imperante della classe politica. Milano capitale della grafica e del design cade sulla campagna elettorale: «Questi manifesti tradiscono la totale inconsistenza visiva del mondo della politica: sono sbagliati dal punto di vista grafico e comunicativo» attacca Philippe Daverio, critico d’arte per i più, ma anche docente di Fondamenti di etica per il desing al Politecnico Bovisa. «Cartelloni elettorali sbagliati sono il simbolo del distaccamento della politica dalla società: com’è possibile che la classe dirigente a Milano, capitale del design della grafica e della pubblicità, non siano in grado di comunicare?» si chiede. Il professore con il cravattino passa in rassegna tutti i manifesti e dà i voti. «Intanto una premessa generale: sarebbe ora che i politici smettessero di mettere il proprio volto sui manifesti: è inutile per la comunicazione - loro non saranno ai seggi - e tradisce il narcisismo. Così come è sbagliata la «simulazione» della scheda, con la matita e la scritta in corsivo con il nome del candidato: fa vecchio ed è ridondante - spiega il professore - il nome è già scritto in alto».
Bocciato Antonluca Romano: il manifesto non è per nulla creativo, non c’è nulla di originale, solo il suo volto in campo rosso. Lo stesso vale per Marco Osnato: il cartellone non è creativo, lo slogan «Vivi meglio, Milano» è grammaticalmente scorretto. Promossa la campagna di Benedetta Borsani: «Si merita un bel 9» esclama soddisfatto Daverio. Perché? «Si vede che c’è la mano di un creativo: intanto non c’è il volto del candidato, c’è scritto tutto quello che serve, ma nulla di più. Una foto originale e costruita - una bambina che gioca al “mondo” con il nome della candidata - un messaggio chiaro: la “Milano dei bambini”, e il nome della candidata». Bocciato Armando Siri con la campagna che sembra «fatta in casa»: l’immagine scontornata del candidato e molte, troppe, scritte. «La foto non va bene - spiega Daverio - Siri non sembra per nulla convinto, troppe le informazioni inutili: la data delle elezioni, il facsimile della scheda, il nome del candidato due volte, e poi il simbolo... se questa deve essere una serratura è sbagliata!».
Daverio ha delle riserve anche sulla campagna elettorale del sindaco: «Non è creativa, lei è molto più giovane ed è troppo mutevole: vestita in modo diverso a seconda delle situazioni perde identità - spiega il professore con il papillon - meglio i manifesti dove indossa la fascia tricolore: sono più istituzionali, rappresenta l’amministrazione».
Passano il severo esame i manifesti di Giuliano Pisapia: «La foto è spontanea, non narcisistica, ed è simpatico lo sfondo di foglie sfuocato. Certo, Pisapia in camicia ricorda molto Bersani, mentre lo slogan, dal sapore “obamiano”, è scorretto grammaticalmente: “Milano si può”». Bene il messaggio: «Il vento cambia davvero (e anche l’aria di Milano)». Qui c’è un po’ di ironia!».
Rimandato a settembre il Pd: «La statua di Garibaldi fa simpatia - commenta il critico - così il fatto di scrivere “W Milano” inietta una buona dose di ottimismo. Certo che sarebbe stato meglio scrivere solo “Milano risorge, risorge l’Italia” in alto, e togliere “W Milano”, banale e ridondante dal punto di vista comunicativo».
Promossa a pieni voti la Lega: «Questo sì che è un manifesto! È corretto, chiaro e incisivo: c’è il simbolo del partito, il simbolo della città e un messaggio univoco: “Milano capitale con il federalismo”. Non c’è la foto del candidato, dettaglio non da poco!». Da 10 e lode per il critico d’arte anche la campagna di Edoardo Croci, caratterizzata da un «alto tasso di grafica e creatività. Sfondo colorato, simboli e nessuna foto, messaggio chiaro». «Mai più foto così!».

Il riferimento è ai manifesti di Manfredi Palmeri: «Sembra uno che è appena stato escluso o appena licenziato! Quest’aria imbarazzata...». Lo slogan? «Non si vede nemmeno, predomina il volto». «Il solito narcisismo dei politici».

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