Adesso che la sua parabola è compiuta, di Alberico Serbelloni pochi parlano volentieri, e comunque col vincolo dell'anonimato. Ma tutti concordano su alcuni dettagli cruciali: «Non era una mente, e soprattutto non una mente criminale. Ma era mosso da una ansia di rivalsa incontenibile verso i rami della famiglia che avevano preso il sopravvento sul suo».
«Per questo - racconta uno - non riusciva ad immaginarsi se non dietro una scrivania colossale. E per lo sesso motivo non accettava che le sue idee non fossero accettate. Il risultato era che se uno dello staff lanciava una idea migliore, di solito lo allontanava».
Eppure il suo progetto di business sull'arte, compresa l'idea un po' velleitaria di sbarcare in Borsa, avevano convinto e coinvolto molti nomi della Milano bene, «che quando è arrivata la Procura si sono trovati in estremo imbarazzo».
Anche la catena di scatole cinesi che alla fine lo ha travolto, si racconta, era al servizio dello sbarco in piazza Affari: a sua volta indispensabile alla rivincita familiare. Dietro la sua monumentale scrivania nella sede di piazza Borromeo, sognava di dire un giorno: «Il vero Serbelloni sono io». Gli è andata male.LF
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