Milioni di registrazioni inutili nel buco nero delle Procure

MilanoLa grande discarica non ha nome né registro. È una specie di buco nero dove viene smaltito tutto il lavoro - ed è spesso un lavoro immane - compiuto intercettando telefoni, abitacoli, tinelli, computer di un indagato finito nel mirino della magistratura, quando tutto questo ascoltare non arriva da nessuna parte. È fisiologico che questo accada. Se ci fosse la certezza di arrivare con le intercettazioni a incastrare il colpevole di turno, paradossalmente vorrebbe dire che quelle intercettazioni sono superflue. Invece l’intercettazione è un’ipotesi, un tentativo basato su elementi, ovvero su indizi, e non su prove. Quando le prove non arrivano, è giusto buttare via tutto. Meno giusto, o comunque meno comprensibile, è che non esista una banda dati ufficiale che dica quanto - del duro e costoso lavoro degli interceptor - finisce in discarica.
Una parte delle intercettazioni inutili finisce comunque sui giornali: dal bacino di Alda D’Eusanio al piede di Craxi latitante, alle effusioni Falchi-Ricucci, carburante per l’eterna macchina del gossip. Ma molto più vasto è il numero delle intercettazioni inutili che vengono inghiottite dalla grande discarica senza che nessuno ne sappia mai nulla. Da tempo c’è chi sostiene che per calcolare costi e benefici dell’azienda giustizia si dovrebbe tenere anche questo bilancio. Ma invano. Insieme alle intercettazioni muoiono quasi sempre le inchieste, senza che la loro esistenza sia mai stata rivelata al grande pubblico.
Così, per capire in quanti casi si sia intercettato senza risultato, bisogna affidarsi alla tradizione orale. È noto che Ilda Boccassini un giorno ebbe a inorridire davanti alla gigantesca massa di intercettazioni compiute dai carabinieri inseguendo per mesi e mesi un presunto gruppo di narcotrafficanti: ordinò di staccare subito i telefoni, e di smistare il poco che ne emergeva alle Procure di competenza.
Meno noto è invece quante e quali intercettazioni fossero state compiute dal pool milanese nell’ambito della sterminata inchiesta sui rapporti tra massoneria e Guardia di finanza svanita nel nulla. O quante intercettazioni fossero state disposte ed eseguite nell’ambito di un’altra indagine partita tra grandi speranze e poi spiaggiatasi malinconicamente, quella sui rapporti tra il mondo dell’economia milanese e torbidi affari in terra d’Africa. A volte, tra le storie di intercettazioni infruttuose, spuntano anche storie di intercettazioni illecite: si dice che agli atti del processo per il delitto di Garlasco vi siano tracce di telefonate tra l’indagato Alberto Stasi e i suoi difensori di fiducia, ascoltate, trascritte e depositate con buona pace del codice di procedura penale.
Di fronte a questi interrogativi, le Procure replicano da sempre che a ordinare le intercettazioni e le loro proroghe non è il pm ma un giudice preliminare. Ma quanto è efficace questo filtro? Per capirlo sarebbe utile sapere che percentuale delle richieste avanzate - per esempio - dalla Procura di Milano sia stata respinta dai gip. «Posso assicurare - spiega un giudice - che si tratta di una percentuale non irrilevante». Ma anche qua manca una banca dati.
Alla Procura di Milano - insieme a quella di Palermo, il principale committente di intercettazioni telefoniche e ambientali del sistema giudiziario italiano - esiste un ufficio che centralizza i dati sulle intercettazioni in corso. Si chiama ufficio Rrit, ed è il custode di innumerevoli segreti.

Ma nessuno tiene invece il conto delle richieste respinte. E nemmeno dei rifiuti dei giudici di prorogare ascolti già in corso, arrendendosi alla loro infruttuosità. D’altronde quest’ultimo di diniego - spiegano gli addetti ai lavori - arriva molto di rado.

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