Appena ebbero inizio le riprese \, Arthur si tenne alla larga da Marilyn, anche se non al punto da tornare in albergo. Invece di trascorrere i pomeriggi a revisionarla, osservava le riprese di questa sua prima sceneggiatura prodotta. A volte armeggiava con la sceneggiatura sulla location del film e la rivista Life aveva pubblicato una sua foto seduto su una sedia da regista in tela, depresso mentre si strofinava gli occhi accanto a una sedia vuota con il nome di Marilyn Monroe sullo schienale. Ma era allhotel che intendeva fare le revisioni più serie su quello che Frank Taylor considerava ancora «la migliore maledetta sceneggiatura che sia stata mai scritta». Eppure, alla sera difficilmente aveva portato a termine qualcosa. Marilyn andava a dormire di solito subito dopo le loro cene solitarie. Lui poteva solo guardarla mentre ingoiava pillole e, se diventava ansiosa, tenerle compagnia durante la notte, evitando accuratamente, disse, qualsiasi cosa la potesse irritare. Quando si avventurava nella stanza da letto, lei gli gridava di uscire. Spesso, lei non riusciva a prendere sonno fino alle sei del mattino, poco prima di quando avrebbe dovuto essere pronta per il lavoro. Alla fine, Nan Taylor gli fece avere una seconda stanza a mo di studio, che purtroppo rimaneva regolarmente buia per le interruzioni della corrente causate da una serie di incendi forestali scoppiati sulla vicina Sierra Nevada. In quei casi, Miller lavorava alla luce di una semplice lampadina collegata al generatore demergenza dellalbergo, oppure sonnecchiava in quella stanza finché non tornava la corrente.
Nel frattempo, i disturbi della Monroe sintensificavano. A volte, il truccatore doveva andare nella loro suite per prepararla mentre lei era ancora a letto. La sua depressione veniva solo esacerbata dai rallentamenti fisici causati dai barbiturici, che ormai venivano iniettati, ricordò Miller, da un «giovane dottore spaventato». Sul set, esauriva la pazienza di Huston impuntandosi a leggere una semplice battuta quale «Eccoci qua», come: «Siamo qua». Nonostante questo, Paula Strasberg riuscì a dire a Joan Copeland, la sorella di Arthur che era venuta in visita: «Adorerai Marilyn qui. Ha appena girato la sessantaquattresima ripresa ed era meravigliosa».
Per quanto riguarda la facciata di unione e amicizia che lei e Arthur volevano mantenere, lagitazione e lostilità di Marilyn la stavano rendendo impossibile. Miller e un visitatore inglese stavano conversando nella suite dellalbergo quando Marilyn entrò «sbattendo» la porta. «Grazie al cielo hai portato qualcuno a casa», disse la donna, «è così noioso». Linglese, pensò Miller, «sembrò come se fosse stato colpito». Unaltra volta, raccontò John Huston, «stavo per andare via dalla location con la macchina, miglia e miglia di deserto, quando vidi Arthur in piedi da solo. Marilyn e i suoi amici non gli avevano offerto un passaggio per tornare: lavevano proprio lasciato lì. Se non lavessi visto, sarebbe rimasto bloccato laggiù». La storia divenne immediatamente una leggenda tra i membri della compagnia de Gli spostati, e fu talmente infiorata da giungere a dire che lei gli aveva sbattuto in faccia la portiera della sua limousine. Eppure, lei continuava a considerarsi una vittima. «E pensare che Arthur lha fatto per me», confidò in seguito allinglese. «Doveva essere scritto per me, ma lui dice che è il suo film. Non credo neanche che mi ci volesse», aggiungendo: «Arthur si è lamentato di me con Huston, ecco perché Huston mi tratta come unidiota».
Durante una pausa delle riprese, volò a Los Angeles per una visita ampiamente documentata a Montand, che stava girando un film intitolato Il grande peccato. Secondo Eli Wallach, Miller si comportò come se non sapesse che era partita. Al suo ritorno, lo stato emotivo di Marilyn era solo peggiorato per la tregua, mentre la stampa nazionale stava cominciando a esaminare e psicanalizzare ogni suo tic emotivo. Anche Miller contribuì a questo processo, anzi ne partecipò sempre più e in modo deplorevole. Time riassunse Gli spostati come attinto dal suo racconto su una coppia di cowboy che fanno riferimento a «una donna vagamente in comune di nome Roslyn. Nella versione cinematografica, Roslyn si è spostata al centro della storia e diventa, per ammissione dellautore, un ritratto strettamente personale di sua moglie. Come Marilyn, Roslyn è una donna a pezzi, maltrattata, sempre in cerca di una relazione. Impotente, eppure piena di desiderio».
Dopo sette delle dieci settimane programmate dalla produzione, Marilyn stava decisamente cadendo a pezzi. Il suo stato emotivo era diventato precario, la dipendenza da barbiturici pericolosa. A volte era del tutto incoerente.
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