«Il mio Aperitivo in concerto dà la sveglia a Milano»

U n quarto di secolo è l’età giusta per fare dei bilanci. E Gianni Morelenbaum Gualberto, direttore artistico di “Aperitivo in concerto“, il matinée musicale del Manzoni, non si tira certo indietro. Tanto più che quest’ultima 25ma edizione, forse la più difficile dal punto di vista dei contenuti, ha dato ancora una volta ragione al suo progetto, registrando il tutto esaurito in quasi tutti i concerti. «Il nostro compito -dice- è stato paradossalmente facile perchè abbiamo colmato un vuoto, quello delle domeniche milanesi francamente un po’ tristi. Non solo, abbiamo assecondato un pubblico colto ma attento all’innovazione, alla contemporaneità».
Quest’edizione è stata particolarmente ricercata, con contributi dall’Africa all’Asia alle Americhe. Non più solo jazz dunque
«Vede, quando arrivai qui nel ’95, la rassegna del Manzoni esisteva già ed era totalmente impostata su un programma di musica classica. Capii che si poteva fare molto di più anche perchè a Milano la classica, tra Scala e Conservatorio, era già di casa. Allora, con Fedele Confalonieri, ci domandammo: quale tipo di classica è più vicina alla gente?»
Quale?
«Nel dopoguerra, dal jazz in poi, sono nati diversi generi musicali che hanno assurto valore di classicità pur avendo un’estrazione “popolare“. Penso a certa musica brasiliana oppure al tango argentino. “Aperitivo in concerto“ ha avuto il merito di portare tutto l’anno a teatro generi musicali colti ma al contempo di intrattenimento e che, per tradizione, erano relegati ai club».
Il jazz alla domenica mattina, per di più a teatro, è stata una bella sfida, lo ammetta
«A Roma o a Palermo non ci avrei mai provato, ma Milano è una città nordica che, come stile di vita, più si avvicina ai gusti anglosassoni ed io, che ero appena tornato dagli Stati Uniti dove ho lavorato anche con Bernstein, me ne sono accorto subito. Ma aggiungo anche che abbiamo fatto da battistrada al ritorno del jazz a Milano che negli anni Novanta era scomparso. Il Blue Note arrivò dopo».
Che target di pubblico vi siete aggiudicati?
«Un pubblico certamente colto, ma intellettualmente (e anagraficamente) giovane. I primi tempi non c’era bisogno di prevendite, ma nelle ultime edizioni l’aumento di richieste ci ha imposto anche l’offerta di abbonamenti»
Sul palco abbiamo visto quest’anno molte contaminazioni, con spettacoli di «performing art» tra musica, immagini, teatro e poesia
«Questo è un punto cruciale e anche il segreto del successo della manifestazione. Abbiamo prodotto spettacoli puntando al “nuovo di qualità“, in molti casi portando in scena prime mondiali. Cioè il contrario di quanto in genere succede a Milano, dove si tende ad importare prodotti artistici già visti e di facile successo. Anche “Mito“ non sfugge a questa logica. Ma Confalonieri, che pure come tutti sanno è molto legato alla musica accademica, mi ha incoraggiato a proseguire sul terreno della sperimentazione».


Quali sono stati quest’anno gli spettacoli di cui va particolarmente fiero?
«Beh, mi ha lasciato impresso la performance di Vijay Iyer, pianista, compositore e matematico, tra i leader più ispirati e creativi del jazz contemporaneo. Ma non dimentico il grande concerto di Sonny Rollins, che abbiamo riportato a Milano dopo 20 anni».

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