Un giorno a New York, Time Square: pare che in vena di esperimenti ai passanti abbia lanciato la sfida di replicare all'incipit di un suo brano. Subito la risposta canora: «Pensierooo!!!». Invece di «Chi fermerà la musica» oggi sarebbe meglio cantare «Chi fermerà Roby», sì proprio lui, all'anagrafe Camillo Ferdinando Facchinetti, di Bergamo: l'ex voce-tastierista-compositore dei Pooh. Che dopo l'uscita di scena della band si è visto all'opera con l'amico ritrovato Riccardo Fogli. Insomma per dire che a soli 74 anni (il primo maggio prossimo) l'uomo del «Dio delle città» morde ancora la vita come un leone nel nome di una meravigliosa ossessione. «La musica del resto non mi ha mai tradito», assicura a pranzo in un hotel alle porte di Milano, dove accetta di raccontarsi anche in maniera inedita.
Roby, quando la sua carriera si è rivelata un boomerang?
«Ho avuto una vita molto affollata e fortunata, ma non è stato tutto rose e fiori. Avrei voluto dedicare più tempo ai miei figli, vederli meglio crescere, magari accompagnarli all'asilo o a scuola qualche volta in più. O assistere alla prima volta che uno di loro diceva papà o mamma. Ora queste cose le sto vivendo con i nipoti».
Il segreto del tempo: quanta vita le ha lasciato per meditare, leggere, dire un'Ave Maria?
«Queste cose le ho fatte, limitatamente alle disponibilità che avevo. Riguardo alla preghiera però posso dire questo: mia nonna materna, Margherita, era molto religiosa e quando ero piccolo spesso andavo da lei. Alle 6 del pomeriggio mi faceva dire il rosario e poi prima di andare a letto a dormire la sera mi faceva pregare. E questa bella abitudine mi è rimasta».
Quindi lei ha un rapporto profondo con la fede?
«Sì, voglio pensare che veramente esista la vita eterna. Credo che qualcosa di molto importante ci sia al di là di noi. Sarebbe presunzione pensare il contrario; come si fa a giustificare la natura, certi fenomeni, quello che accade. Credo molto nelle energie. Ho un mio modo di vivere la fede, quando posso vado a messa; poi quando mi devo raccogliere, lo faccio pure in auto o nel mio candido lettino, in forma privata, ma sono profondamente religioso».
Quindi non solo «orsacchiotto» (un Pooh, appunto) ma anche un po' chierichetto...
«Certo. L'ho fatto dai 6 ai 12 anni ed ero un chierichetto con la C maiuscola. Anche se a messa alta nella parrocchia bergamasca di Longuelo, con la chiesa gremita, portando le ampolle con il vassoietto sull'altare sono inciampato. Il parroco fece pagare alla mia famiglia le ampolle».
Ha vissuto la sua fede anche con opere di bene?
«I momenti di solidarietà ci sono stati. C'è l'amicizia con Don Mazzi, mi ha telefonato l'altro giorno. Poi un bellissimo rapporto con il mio amico Roberto, che gestisce una comunità, cerca di aiutare senza chiedere nulla in cambio. Una persona davvero speciale con un'energia particolare. Ogni volta che lo vado a trovare mi fa sentire bene, una persona con un'enorme sensibilità, che ti sa leggere dentro».
I rapporti umani sembrano molto importanti per lei, parliamo dell'amicizia...
«Con gli altri Pooh usare la parola amicizia è riduttivo, anche con Riccardo (Fogli, ndr) tutti uniti per i primi sette anni: abbiamo condiviso le 50 lire, sofferto la fame, fatto sacrifici inverosimili. Il contatto con lui c'è sempre stato. Con la Reunion ci siamo rifrequentati. E a un certo punto ci è stato proposto di fare qualcosa, da qui il disco Insieme e il resto».
Ma dopo 50 anni di palco non le è venuta voglia di cambiare vita?
«Il gruppo ha chiuso nel modo più bello possibile. Io non ho mai trovato nessun interesse che potesse darmi tanto quanto la musica. I viaggi? A Natale spesso vado via con la famiglia, ma dopo un po' sento il richiamo per lo strumento, ho voglia di suonare, penso di salire su un palco, dove mi sento appagato in tutti i sensi».
Anche i parenti vogliono attenzione, nel suo caso famiglie extralarge: cosa succede durante le feste?
«Per noi bergamaschi è molto importante Santa Lucia, è la festa dei bambini e nel mio caso quella dei cinque nipoti. A Natale c'è la tavolata e, attualmente, minimo siamo una trentina di persone. Mio figlio Francesco si trova veramente a suo agio da mattatore qual è, ed è sempre molto divertente, fa ridere davvero».
A proposito degli eredi, c'è tra i Facchinetti un Roby 2?
«La creatività ha preso molte strade. C'è Francesco, con tutte le cose che fa; Alessandra è stilista, Valentina si occupa di comunicazione per una radio; Roberto, che deve dare l'ultimo esame di Lettere moderne, è il filosofo della famiglia, ha lavorato per un po' di tempo in tv come autore e ora lavora con il fratello Francesco. E Giulia veramente in gamba, si è laureata alla Bocconi e da un paio di anni ha aperto una palestra innovativa con il marito a Bergamo. Un Roby 2 non c'è. Uno basta e avanza. Confido nei nipoti, stiamo alla finestra e vediamo».
Gioie familiari e non: quali i momenti che non si dimenticano?
«Indimenticabili le nascite, sempre un dono di Dio. Ho avuto la fortuna di vedere quelle dei miei figli, emozioni indescrivibili. Indelebili i lutti dei propri cari: mio padre Giuseppe, mia madre Emilia, nell'88 la tragedia di mio fratello Renato per un incidente. Zia Elisa, che mi ha fatto un po' da mamma e che è morta quando avevo 15 anni, un'età in cui non sei grado di capire e di accettare. E poi Giulio, un amico fraterno venuto a mancare 3 anni fa e sicuramente la scomparsa di Valerio Negrini, che ha lasciato un vuoto incolmabile sia a livello umano sia professionale».
Meglio l'amore o le soddisfazioni del lavoro?
«C'è una bella competizione tra la musica e l'amore di coppia, due cose fortissime. Dicono che l'innamoramento fra due persone non possa durare più di tre mesi, poi la situazione si stabilizza e se è amore, e non altro, tutto si trasforma in amore vero. Con la musica ci sono vantaggi: spesso dura una vita intera eppoi non ti tradisce mai. Diventa un rifugio, non mi ha mai lasciato solo».
Fotografia dell'infanzia: era un discolo?
«A volte, diciamo vivace. Un episodio che mi riguarda, a dieci anni. Avevo la febbre a quaranta, ovviamente dovevo stare a letto. Invece sono salito sul tetto di casa imbiancato da una nevicata. Amo molto la neve e andare sui tetti, mi piaceva l'altezza e ancora mi piace perché si riesce a vedere tutto».
Che ricordi della scuola, della formazione (musicale)?
«Nella mia famiglia la musica c'è sempre stata. I miei nonni avevano nomi biblici, Noè e Abramo: il primo, religiosissimo, era direttore di un coro polifonico, scrisse pure una messa cantata. Quando mi ha visto per l'ultima volta, poco prima di morire, avevo 40 giorni appena. E disse io ho avuto la fortuna di conoscerti tu invece no, mi raccontava mamma. Lei amava la musica e ascoltava sempre le opere di Verdi, Donizetti e Puccini, le sinfonie. Sicuramente ho assorbito tutto questo. Infatti il mio modo di scrivere, nella composizione, si rifà molto alle radici della musica classica e lirica. Devo molto anche ai miei primi maestri: Ravasio, da cui ho iniziato che avevo sette anni. Dopo un'ora avevo già imparato a solfeggiare la scala di do. E per il pianoforte c'è stato Sala, con lui ho studiato il repertorio classico. Ma io fin da giovanissimo ero più portato, attratto dalla musica pop».
Non hai mai pensato di diventare un concertista classico?
«Ho capito quanto importate fosse trasmettere emozioni con lo strumento fin da bambino, quando mi hanno regalato l'armonica a bocca che avevo chiesto per Santa Lucia. Poi c'è stato un momento che volevo diventare direttore d'orchestra, dopo avere visto un film al cinema. La storia di un ragazzino che ebbe la fortuna di dirigere. Io guardai mia mamma e le dissi: Io da grande voglio diventare come lui».
Ogni star ha composto una sinfonia. Idee in proposito?
«Uno dei miei progetti, nel cassetto da molti anni, è di prendere alcuni dei pezzi strumentali che ho scritto e di collegarli con parti assolutamente inedite e di fare quindi un'unica opera, il tutto con una conseguenza logica. Alla fine potrebbe essere una sinfonia di un'ora circa».
Fare musica, una volta un lusso nelle case «normali»...
«Mio padre Giuseppe lavorava alla Dalmine e per arrotondare faceva lavori di falegnameria, un bravissimo artigiano. In casa non mancava nulla ma eravamo, appunto, una famiglia normale. I miei riguardo alla musica non mi hanno mai scoraggiato. Anzi, dopo l'armonica è arrivato il primo piano verticale pagato 130mila lire, allora una grossa cifra. Direi che hanno fatto dei sacrifici per farmi studiare. A mia mamma ho detto un giorno ti ricompenserò. E così è stato».
Se Roby non avesse fatto Roby che cos'altro avrebbe fatto?
«Senza la musica? Me lo sono chiesto molte volte e non ho mai trovato una risposta. Io sono bergamasco, quindi anche una persona molto pratica. So che cosa significa rimboccarsi le maniche, so che cosa significa gestire una famiglia, so che cosa sono le rinunce, se mi fossi trovato da un giorno all'altro a inventarmi un lavoro sono convinto che qualcosa sarebbe saltato fuori».
Lei è amato anche per sua simpatia e capacità di comunicare, chissà tra i fan quanti insospettabili...
«Nel tempo ci sono state molte sorprese. L'attrice Sophia Loren che pianse per Uomini soli. Ricordo il giornalista Fabrizio Zampa, un po' critico con noi, che chiese venia ai lettori dopo aver visto un nostro live. L'allenatore della Juve Allegri: a Natale la fidanzata Ambra gli regalato dei nostri cd, che hanno voluto autografati. Mi piace pensare che la squadra stia ottenendo questi risultati anche grazie la musica dei Pooh».
Quali gli incontri che ricorda con piacere anche al di fuori dello spettacolo?
«Ben quattro pontefici. Papa Giovanni quando era patriarca a Venezia; l'ho incontrato grazie a sua sorella Assunta che conoscevo benissimo; poi ho incontrato Woityla, quando abbiamo fatto un concerto in Vaticano. Dopo Ratzinger e ancora l'ultimo, Papa Francesco».
Oltre ai momenti memorabili anche qualche amarezza, quella volta che è scattata la censura...
«Chi per esempio ha criticato i testi dei Pooh etichettandoli come soft semplicemente non conosceva bene il nostro repertorio. Anche grazie a Valerio Negrini noi abbiamo affrontato tra i primi molti temi come omosessualità, femminismo e abusi. Anche il terrorismo con il pezzo Brennero 66, in cui si parla di una guerra dimenticata, del terrorismo altoatesino in cui morirono oltre trenta finanzieri. Parallelamente in America c'era Bob Dylan che parlava del Vietnam. Ma al Festival delle Rose, in quegli anni, ci hanno censurato, costringendoci a cambiare il titolo e delle frasi del pezzo».
Andiamo verso il gran finale: in quale occasione ha perso i freni inibitori?
«Alle Hawaii finito il lavoro eravamo tutti eccitatissimi. Al bar facevano il cocktail Mai Tai, dei bicchieroni pazzeschi. Di solito lo bevevo come aperitivo, poi si andava a tavola. Ma l'ultima sera per rilassarmi ne ho presi altri. Al primo sorso del terzo calice, avevo davanti a me la regista del video, tutto improvvisamente è diventato doppio. Non riuscivo a camminare dritto e mi feci accompagnare in albergo».
Quella volta che ha fatto un censimento in cantina per contare le bottiglie?
«Pensavo di avere tremila bottiglie e invece la sorpresa un giorno è stata trovarne meno. Ne avevo già bevute mille».
Quella volta che sua figlia Alessandra, stilista, le disse: basta papà per il concerto ti vesto io...
«In effetti è successo. Alla Reunion, mi disse non ti mettere in testa strane cose questa volta. Ti vesti come ti dico io. Le camicie no, ma le giacche sono state opera sua».
Lei un bergamasco fedele e appassionato: meglio stare «de hura» o «de hota»?
«De hura, Bergamo di sopra, anche perché è un gioiello».
Che cosa porterebbe Roby sull'isola deserta?
«Una tastiera, la mia famiglia nessuno escluso e l'Atalanta».
La cosa da non rifare nell'esistenza?
«Si tirano in ballo sempre gli sbagli. Io preferisco rifarmi a quello che scrisse Oscar Wilde e cioè che la vera esperienza è il frutto dei nostri errori».
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