New York è qui, ai piedi di se stessa. Cemento, vetro, altezza, impresa, anima, ideale, profondità, scommessa, futuro. Un isolato per capire: il quadrato che fa da base all’Empire State Building. Alza gli occhi e capirai che cos’è questa città: uno slancio nel cielo e uno nella storia dell’umanità. Guarda e pensa: New York ha raggiunto il suo punto più alto nel momento più basso della Depressione. Basta questo per capire. È il suo compito, il suo destino. Quello che gli altri non saranno, quello che gli altri non sono. È un essere umano: esprime emozioni, sensazioni, sentimenti. Forse perché è troppo piccola per essere così grande: s’è sviluppata in altezza perché non aveva altro spazio. Però così è diventata quello che è: l’unico posto su questo pianeta che va al di là delle sue possibilità ogni giorno.
Per il mondo è quello che una Chiesa è per ogni paesino: il simbolo visibile dell’aspirazione, il pennacchio di fumo che indica la strada verso l’alto. È come se ci voltassimo ogni volta verso Ovest, superassimo l’Atlantico e stessimo a guardare quello che succede su quel pezzo di terra che s’infila dentro l’acqua. Aspetta l’ispirazione. Ci svegliamo quando lei dorme e a un certo punto attendiamo che si svegli per capire dove andiamo. La Borsa, certo. Poi il resto: il costume e lo stile di vita, la diplomazia e il nostro modo di vestire, i film e la televisione. New York è un’aspettativa infinita: non è la città della moda, ma fa la moda; non è la città del cinema, ma fa il cinema; non è la città della politica, ma fa la politica. È un miracolo, New York. Il nostro. Perché è incredibile il solo fatto che esista ancora. Quante volte sarebbe potuta morire? Ci ragionava E.B. White, sessant’anni fa: «Avrebbe dovuto autodistruggersi, avrebbe dovuto sperimentare un ingorgo insuperabile, in una qualche impossibile strozzatura. Avrebbe dovuto morire di fame per una breve mancanza di approvvigionamenti alimentari. Avrebbe dovuto essere stata spazzata via da un’epidemia partita da uno dei suoi quartieri poveri o portata in città dai ratti delle navi. Avrebbe dovuto essere sommersa dai mari che ne lambiscono ogni fianco. Sarebbe dovuta impazzire, colpita alla testa dal caldo di agosto».
Sta qui, invece. Uguale, diversa, modificata, aggiornata. Con gli stessi problemi, con le stesse mancanze. Sta qui a dire a un gruppo di vigliacchi terroristi che l’11 settembre 2001 l’ha ferita, lasciata in lacrime, azzoppata, ma non uccisa. Non si ammazza il mito. È così e non chiedetevi perché, basti sapere che non c’è paragone possibile, non c’è alternativa immaginabile: questa città è l’epicentro di ogni attività, buona o brutta che sia. Non funziona come Zurigo, non ha la storia di Roma, non ha la bellezza di Parigi. È diversa, unica. Sbagliata, quindi perfetta. È inadeguata, precaria, imprecisa. È un gigante traballante: entri in una metropolitana e ti chiedi se ne uscirai, perché sai che questo è l’obiettivo di ogni terrorista. New York dovrebbe esplodere in un attacco di panico o di isteria, dovrebbe soffocare nella claustrofobia collettiva. Invece no, la gente sorride e se non sorride si fa i fatti propri, sobriamente, senza esagerare. È lo spirito dei newyorkesi, questo: gli scivola addosso il mondo, perché loro ci sguazzano dentro da sempre, ognuno da un momento della vita, inizio, metà, fine, oppure a intermittenza. Perché ci sono tre tipi di newyorkesi. C’è chi ci è nato, chi ci è arrivato da emigrato, chi ci viene ogni giorno per tornare a casa la sera: i pendolari le danno il movimento, i newyorkesi di nascita le danno solidità e continuità, i nuovi residenti le danno passione. New York è punto d’arrivo, una meta. È l’eccitazione che ti porta a Manhattan, l’idea di sentirti a casa anche se la casa l’hai appena lasciata per un nuovo mondo.
Qui comincia New York e qui non finisce, perché non l’ha distrutta la cattiveria dei terroristi e non lo farà nessuno. Lo dice l’Empire fermo, alto, imperiale nel pieno di quest’altra crisi. Edificio più alto di Manhattan ancora, per mano di chi ha tirato giù le Twin towers, massacrando l’Occidente, senza capire che l’unico posto dove l’Occidente può rigenerarsi è proprio quello che hanno colpito. Simboli, certo. Però per tutti: Al Qaida ha sfregiato l’emblema del nostro modo di vivere e noi non l’abbiamo lasciato morire proprio perché è la bandiera del nostro mondo. Ci siamo stati a New York. Quelli che l’hanno fatto per davvero e quelli che non ci hanno mai messo piede. «Leaving New York, never easy», cantano i Rem, in una canzone scritta dopo l’11 settembre 2001. È una città che non ti lascia perché ti resta dentro. È la voglia di ricominciare. È casa, di nuovo.
Non c’è posto al mondo che cambi così senza cambiare mai: spariscono certe cose e ne nascono altre, si gentrifica, come dicono i manhattanite, quando vogliono raccontare che i vecchi quartieri disagiati stanno diventando chic. Era proibizionista, poi libertaria, poi hippie, poi yuppie, poi liberal, poi aggressiva, poi violenta, poi salottiera, poi ricca, poi fallita, poi rinata. Sempre e comunque con dei confini, dando l’impressione di non poterne avere.
Nel 1931, quando fu completata la costruzione dell’Empire State Building, invitarono Francis Scott Fitzgerald a salire sul tetto. Lo scrittore guardò e prese appunti, poi scrisse My lost City: «Dal suo grattacielo più alto, il newyorkese ha veduto per la prima volta che la metropoli svaniva nel territorio da tutti i lati. E nel terribile momento in cui si è accorto che New York era una città dopo tutto, non un universo, l’intero edificio scintillante che egli aveva costruito nella sua immaginazione è venuto a crollare sul terreno». C’è ancora, ovviamente. C’è e come tutto il resto ci sarà.
Perché la città finisce geograficamente, ma non nello spirito: individualista, innovativa, libera, imprenditoriale, avventuriera, a caccia di ricchezza. I dollari hanno costruito questa città più di ogni straordinario architetto. New York non se ne vergogna. Anzi.