Che strazio, che malinconia, che delicatezza. E persino - in alcune pagine - che squallore. Martedì arriva nelle librerie S. Il Nobel privato di Domingos Bomtempo (Cavallo di Ferro, pagg. 192, euro 16), un libro per tutti e per pochi. Per tutti: perché mostra dall’interno l’anima di uno scrittore a suo modo grande e cosa sia la vecchiaia, e lo fa tanto impietosamente da immunizzare i lettori contro ogni tentazione di celebrità e di ricerca di qualsiasi «maestro». Per pochi: poiché vi spira una disperazione senza rimedio, essendo un testo tragico pur nel suo gossip voluto e coltivato. Non c’è un solo personaggio che ne esca bene. Le donne, poi, ne escono a pezzi, così come la sessualità degli anziani, l’ambiente letterario internazionale, il Portogallo.
Il romanzo - scritto sotto pseudonimo da una penna certo non di primo inchiostro, visto lo spessore letterario - non fa nomi: è tutto giocato su precisissime allusioni. Il protagonista S. è portoghese, ha vinto il Nobel e porta un nome «che pure a dividerlo in due era strano, la prima parte nome di donna e la seconda carica di molti poteri». Diciamocelo: è José Saramago, ritratto tra un flashback e l’altro, in prima o in terza persona, nel suo buen retiro su una «ventosa isola» dell’arcipelago delle Canarie.
S. è impotente: quel genere di impotenza che si sublima a volte «in dolore che fa di un uomo un mezzo uomo che resta dentro il fondo un solitario» e altre, invece, si esaspera in desiderio per alcune donne che il corpo non potrà mai «possedere» (il motivo della penetrazione impossibile ricorre per tutto il racconto). La sua ultima compagna è una giornalista più giovane di 42 anni, che «a furia di inutili interviste» condotte senza vestiti riesce a farsi sposare. I due vivono insieme, ma spesso lei «riceve» ospiti nella stanza accanto o dorme fuori. Gli fa da agente. Prima c’era stata un’altra moglie, più qualche avventura, reale o letteraria, limitata al cunnilinguo (il romanzo, da questo punto di vista, è molto erotico e ferocemente ironico) con exploit inattesi. Ipocrisie sessuali dall’altro sesso (S. ne deduce che tutte le donne «sono demoni, e come i demoni non hanno il cuore»), peli bianchi sul petto (segno «che un uomo è finito»), sensualità famelica, bavosa e handicappata, unita a una solitudine remissiva e parassitaria: ecco S. prima che il Nobel arrivi a «chiudere la bocca a tutti».
Tutti, o quasi. Perché quel Nobel lo desiderava anche «lo scemo di guerra» nato tra il ’40 e il ’45, il «molossoide troppo in carne» con il «cervello bollito» dalla campagna colonialista portoghese e un «ghigno mastinoide di disprezzo stampato sulla faccia». Uno che con l’alcol ci «ha sempre dato giù parecchio», che se l’editore non lo accoglie subito, «se ne va in bagno, si cala le braghe e, di proposito, piscia tutto fuori della tazza, marchiando in quel modo barbaro e primitivo il territorio editoriale che considera suo a qualsiasi ora». Difficile non vederci il romanziere António Lobo Antunes. Le pagine dedicate a lui sono così violente e dettagliate che si arriva a pensare che dietro lo pseudonimo di Bomtempo possa esserci lo stesso Lobo Antunes in vena di feroce auto-parodia.
Di certo non c’è Antonio Tabucchi. Il suo “fantasma” in queste pagine è piuttosto malmesso: «Con lui i problemi - dice S. - sono cominciati prima del Nobel. È che ci siamo invaghiti entrambi dello stesso poeta ed entrambi abbiamo cominciato a scriverne nei nostri libri. Cioè, io in un solo grande romanzo (L’anno della morte di Ricardo Reis, dedicato a Pessoa, ndr), lui qua e là, ma sempre in modo stitico, che è tipico suo. Cacatine di passero. Lui è un altro che si contorce, stizzendosi in un modo che lo consuma. È uno di quelli che potrebbe scrivere in piedi, tipo sveltina. Quel genere di scrittori che usano i giornali per fare le loro piccole guerre di nulla. Che vogliono fare gli uomini di sinistra, ma non si sentono in colpa quando usano una bottiglia di champagne millesimato per cucinare un risotto».
Miserie, segreti e pruriti di un Nobel chiamato S.
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