La missione impossibile di Genova: volare con il Grifone

(...) delle importanti domeniche e finalmente dei lunedì che ci accompagnino sorridenti e sereni lungo il percorso della settimana. Perché il Genoa c’è (e noi con lui). Perché all’innovazione ora unisce la solidità e la continuità: due virtù indispensabili per disegnare, assieme alla prima, l’eccellenza di un marchio.
Non lo scopriamo certo oggi, eppure la stagione del presidente Preziosi (e del gruppo di professionisti dell’organizzazione e della comunicazione) è una stagione di crescita. Di consolidamento nei risultati (anche e soprattutto nelle difficoltà e nell’apprendimento dagli errori), di turn over e vetrina di talenti calcistici nel giro di pochi campionati. Pensate al Genoa di appena ieri: Milito, Thiago Motta, Criscito, Ranocchia. E a quello di oggi: Palacio, Frey, Jorquera (forse Kucka). Peccato per El-Shaarawi. Ha concentrato un numero di talenti che negli anni precedenti solo il biennio di Bagnoli (e di Spinelli) aveva regalato: con Skuhravy, Aguilera, Branco, Eranio e Panucci. E - ancora prima - dovremmo risalire al Pruzzo degli anni ’70 e al Gigi Meroni degli anni ‘60. Questa della girandola di acquisti è la nuova sofferenza del tifoso contemporaneo. Ma, anche qui, l’aver ascoltato l’orgoglioso gruppo di Facebook (Palacio non si tocca) è stato un primo segnale di una nuova frontiera che il Genoa ha saputo raggiungere. Più coraggioso degli stessi media locali che hanno ignorato la forza di identificazione che il talento argentino (così poco “mediatico”) insegna e regala al pubblico genoano. La frontiera di una squadra che sul modello del club inglese considera alcuni giocatori parte dell’identità del club e della sua immagine, oltre il mercato.
Oltre il mercato appunto. Anche se la città per aiutare la crescita dei suoi club – investendo così sulla propria immagine complessiva, diventando attrattiva (si può anche passare dal calcio per vendere meglio il Nautico, l’Acquario e le mostre del Ducale) – dovrebbe veramente fare la sua parte. Creare le condizioni perché le squadre abbiano finalmente il loro stadio di proprietà. Perché finalmente si possa combattere anche sul mercato calcistico, non solo sul campo, ad armi pari.

Al giro di boa di una campagna per il sindaco della città questo dello stadio è un argomento meno futile di quanto l’agenda politica possa ritenere (e certo – anche se le responsabilità sono locali – il capo del governo che ha dato moltissimo al calcio italiano avrebbe dovuto spingere perché l’intero movimento uscisse da questa condizione di minorità internazionale).

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