Lultima parola, va annotato in questo momento, viene da Condoleezza Rice: che non aggiunge nulla di nuovo ma fa eco, con la sua voce di supposta «colomba», ai più recisi discorsi dei «falchi». La penultima, se vogliamo continuare a seguire il cronometro, viene da Teheran e reitera per lennesima volta la minaccia dellunica efficace rappresaglia in mano agli iraniani: un blocco allesportazione di greggio che farebbe salire ancor più alle stelle i prezzi petroliferi. È una minaccia seria, ma cè unevidente sproporzione in confronto alle azioni che gli americani potrebbero, e lasciano sempre più intendere che vorrebbero, intraprendere. Lescalation è ancora in buona parte retorica, ma si avvicina pericolosamente allarea «operativa», quella in cui le parole debbono diventare fatti, altrimenti perdono ogni credibilità. Il tempo dunque stringe e lunico «cuscinetto» ancora in funzione è quello diplomatico-burocratico. È vero che lAiea ha, contrariamente alle intenzioni del suo presidente El Baradei, dovuto decidersi a passare la stecca allOnu e quindi ad aprire il capitolo delle sanzioni. Non è ancora però chiaro come saranno gli schieramenti in seno al Consiglio di Sicurezza: per esempio, se riprodurranno quelli che si crearono tre anni fa prima dellattacco americano allIrak. Pare ammorbidita, anzi notevolmente, lopposizione della Francia, ma è maggiore limpegno della Russia, anche se a tratti può apparire amletico. Gli ayatollah di Teheran si comportano molto diversamente da Saddam Hussein: minacciosi, aggressivi e intransigenti laddove il dittatore iracheno si rifugiava soprattutto nellambiguità. La differenza ha un motivo centrale, naturalmente: è dimostrato che lIrak di «armi di distruzione di massa» (tanto meno nucleari) non ne aveva neppure lombra, mentre è altrettanto chiaro che lIran se le sta concretamente costruendo. Ciò dà maggiore credibilità alle sue minacce di rappresaglie, ma daltra parte attizza quel senso di urgenza che Washington evidentemente vuol mantenere e accrescere. Il dibattito allOnu non potrà non essere sulle sanzioni e, mentre la posizione giuridica di Teheran è praticamente indifendibile, latteggiamento americano può stimolare le riserve e, forse, la resistenza di quei Paesi membri che sono pronti a una condanna, disposti più o meno volentieri a una qualche forma di sanzione, possono però essere riluttanti a stilare un documento che possa poi essere interpretato unilateralmente dagli Stati Uniti come unautorizzazione in bianco a passare in ogni momento dalle pressioni economico-politiche a un attacco militare.
Il linguaggio dei governanti di Washington si è fatto negli ultimi giorni sempre più duro, esplicito, carico di minacce, sempre più avaro di spazio per un compromesso. Il vicepresidente Cheney e il ministro della Difesa Rumsfeld, due «falchi» a pieno titolo, parlano non solo di «gravi conseguenze» (un termine ancora a cavallo fra la diplomazia e la guerra), ma aggiungono aggettivi, come «dolorose», che hanno un «colore» più decisamente bellico. La Rice si adegua, come ha sempre fatto, e tornano in avanscoperta i «superfalchi» come Richard Perle, consulente del Pentagono, che ha alzato ulteriormente la misura dellasticella: non basterà più che Teheran rinunci a «trattare» il materiale nucleare e lo faccia fare in Russia. Dovrà anche smantellare le sue centrifughe e, anche in Russia, sottoporsi ad ispezioni. E attorno a lui si parla chiaramente non del se, ma del come condurre unazione militare, che qualcuno dà evidentemente per scontata. Si parla di «attacchi mirati», di una «pioggia di missili» o addirittura di «bombardamenti a tappeto» con i B2. Lobiettivo è, di nuovo parola di Perle, «ridurli in cenere».
Bush non si è ancora espresso, certamente non in questi termini. Egli sa che la solidarietà degli alleati e degli amici è molto più larga che non ai tempi della crisi irachena, soprattutto perché le sue richieste sono assai più giustificate. Dovrebbe però anche sapere che nessuno, neppure la Gran Bretagna, ha voglia di saltare la fase delle sanzioni per passare subito agli atti di guerra. La diplomazia americana è parsa in tempi recenti curarsi un po di più del parere degli alleati. Ma ci sono due motivi che possono spingere la Casa Bianca a bruciare le tappe. Il primo è una più chiara definizione degli obiettivi, che esclude un bis di operazioni belliche terrestri come in Irak.
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