Politica

Il mito infranto delle giunte rosse ma buone

Ve la ricordate, la Bologna comunista? Il Pci vinceva con la lista delle Due Torri, Zangheri resisteva alla contestazione rabbiosa del 1977 come se nulla fosse, gli asili emiliani venivano studiati in tutto il mondo, e «nel centro di Bologna - come cantava magicamente Lucio Dalla in “Disperato erotico stomp” - non si perdeva neanche un bambino». Era la città rossa in cui i conflitti sociali erano rarefatti, le case del popolo piene, le sale di ballo liscio affollate all’inverosimile, e il partito papà controllava tutto, dagli appalti alle tagliatelle, alle salsicce della festa de l'Unità. Un papà onnipresente, ma bonario. E un sistema che veniva elevato a modello: «Bologna non è un’isola rossa», recitava il titolo di un celebre saggio. Venne poi la stagione delle giunte rosse del 1975, un po’ dissestate economicamente - certo - ma vuoi mettere la prima mondiale del «Napoleon» al Circo Massimo organizzata da Renato Nicolini? Si disse che era il trionfo dell’effimero, certo, ma intanto arrivavano dal Giappone per vederlo. Intanto le giunte rosse diventavano rosa, ma arrivavano alla terza generazione, mantenendo invariata la forza del loro mito, e la loro egemonia culturale.
Arrivarono i Rutelli, i Bassolino, i Veltroni. Bassolino si presentò con molto fumo e pochissimo arrosto, convocò i telegiornali di tutto il mondo per riaprire il portone del palazzo Serra di Cassano, risanò piazza del plebiscito e il quartiere dei librai, annunciò programmi per recuperare il mare, le fabbriche, persino quel Vesuvio dove un giovane regista, Mario Martone, in un celeberrimo episodio de «I vesuviani» lo immaginava come un santo in ascesa sul vulcano. Ebbene, i sindaci di sinistra divennero addirittura un partito nel partito (ribattezzato veneficamente da Giuliano Amato «il partito delle centopadelle»), e iniziarono a sfornare candidati premier (Rutelli, Veltroni) che abbandonavano le loro giunte, per essere sbaragliati dal Cavaliere. E le cose cominciarono a peggiorare. Il modello si usurava, le scelte si facevano difficili, le soluzioni non funzionavano più. Il mare di Bassolino divenne una passerella di legno su una spiaggia contaminata, gli appalti della manutenzione affidati alla giunta Romeo un clamoroso esempio di malgoverno e di inefficienza, le strade dei percorsi a ostacoli solcati di buche. E intanto anche Bologna crollava, sotto l’effetto di un elettrochoc, con la vittoria imprevista di Giorgio Guazzaloca, il macellaio nazionalpopolare che aveva passato allo spiedo i burosauri del Pds.
Quella sconfitta campale è diventato il punto di svolta di una crisi di immagine, ruolo e idee. È diventato il grimaldello che ha scardinato un mito, che ha definitivamente archiviato la fase dell’egemonia. La tollerante Bologna si è trasformata in un territorio di conflitto, il riconquistatore delle due torri, Cofferati prima in uno sceriffo, e poi in un desaparecido. Sono entrate in crisi le città del Nord, dove i pochi sindaci di sinistra, come il padovano Flavio Zanonato, sono stati costretti a sollevare muri che altrove sarebbero stati definiti segregazionisti, per delimitare i quartieri kasbah di via degli Anelli. Poi il terreno è smottato ancora, con la sconfitta del Pd nella sua roccaforte-simbolo, la Roma veltroniana, passò repentinamente dalle notti bianche ai delitti contro le donne. L’incapacità di risolvere il problema della sicurezza è diventato il paradigma di una sconfitta strategica. E poi, quando l’onda ha toccato Firenze, la sconfitta si è tramutata in disfatta, polemiche sulle ordinanze dell’assessore Cioni contro i lavavetri.
Questa volta l’egemonia culturale era ribaltata: erano gli assessori di sinistra, a varare regolamenti di destra. Possibile? Chi volesse trovare un bilancio impietoso e minuzioso di questa disfatta, non deve fare altro che aprire un libro non sospetto, «Lost in Pd», scritto dal giornalista de L’espresso Marco Damilano. Un cronista di sinistra pubblica tre capitoli al vetriolo sulla crisi del modello amministrativo del Pd. Racconta le tarantelle grottesche di Veltroni e Bassolino per non incontrarsi, i falsetti di Rosetta Iervolino, la mannaia che si abbatte sugli assessori inquisiti e sospettati di corruzione. Ricorda l’incredibile ammuina della Iervolino, che registra i colloqui con i dirigenti veltroniani, e minaccia di renderli noti per incastrarli. Racconta gli insulti, gli scandali, le voci dal sen fuggite del sindaco Domenici.
È un tessuto che si sgretola, un modello che invecchia di colpo, producendo due risultati inevitabili: o la mimesi della destra, o la fuga nell’opposizione. In ogni caso la sconfitta. I problemi politici del Pd diventano improvvisamente una comoda giustificazione a cui aggrapparsi. Quello che sta crollando è l’immagine che per decenni ci ha accompagnato, lo slogan a cui quasi tutti avevano creduto: a livello locale nessuno governa come la sinistra.

Altri tempi, oggi anche gli ultimi nostalgici riconoscono che se devi fare un esempio di buona amministrazione locale non devi citare le giunte rosse, ma semmai quelle della Lega. E c’è ancora qualcuno che si chiede perché le ultime città rosse stiano per diventare azzurre?

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