Mitrokhin, un dossier riapre il caso: ecco gli italiani che aiutarono il Kgb

Un consulente della Commissione: strutture del Pci erano funzionali ai piani sovietici Guzzanti: «La verità sta venendo a galla»

Gabriele Villa

Cominciamo da ciò che, allo stato delle cose, sembra acclarato. Primo: uno stretto legame tra l’apparato, cosiddetto «difensivo», ideato dal Partito comunista italiano ai tempi della Guerra fredda e i piani d’invasione messi a punto dal Patto di Varsavia; secondo: l’esistenza di una rete, piuttosto capillare, di agenti del Kgb, operante in Italia grazie alle coperture, non solo logistiche, proprio di quelle squadre di vigilanza comuniste particolarmente attive dall’immediato dopoguerra fino agli albori degli anni Settanta. Certo, sono gli argomenti centrali dello studio e dell’approfondimento avviato da tempo, non senza difficoltà, dalla Commissione bicamerale d’inchiesta sul caso Mitrokhin e dei quali ha recentemente fatto riferimento il senatore di Forza Italia Paolo Guzzanti, presidente di quella commissione.
Ma ora, nel mosaico di questo puzzle, complicato da reticenze e omissis arriva una certezza in più. L’autorevole certezza contenuta in un nuovo dossier, depositato la scorsa settimana dal professor Gianni Donno, docente di Storia contemporanea all’Università di Lecce e consulente della commissione parlamentare. «Ora - sottolinea lo stesso Guzzanti - dal lavoro del professor Donno, oltre duemila pagine di documenti, supportati da una relazione molto articolata, emerge chiaramente che la verità sta venendo a galla. Peccato per gli eredi del Pci, cui in questi anni è stata ripetutamente offerta la possibilità di collaborare con la commissione per chiarire la verità abbiano scelto invece di tenere sempre la posizione indifendibile e grottesca di chi invece la verità non voleva e non vuole chiarire. Uno scontro frontale che rappresenta l’occasione mancata per scrivere la cosiddetta storia condivisa. Ma adesso tutti i nodi cominciano a venire al pettine e nelle prossime settimane altri determinanti particolari emergeranno?».
L’incarico affidato al professor Donno è stato quello di approfondire l’attività delle cellule del Kgb in Italia, tecnicamente definite «residenture» e verificare se il dossier è giunto integro, senza manipolazioni o tagli più o meno sospetti. Risultato? Qualcosa di molto simile ad una scossa tellurica di non lieve entità: i militanti di quelle squadre “difensive” del Pci, secondo la ricostruzione del docente, avrebbero dato corpo a vere strutture paramilitari al fianco e al servizio delle spie sovietiche. Altro che semplici e innocui “difensori”. Da qui la possibilità che i nuovi elementi raccolti dal consulente della commissione Mitrokhin possano aggiungere ulteriori particolari alle due indagini della magistratura di Roma nel 1991 e nel 2001 sulla rete dell’intelligence rossa, che sfociarono in due archiviazioni. «Sulla presenza del Kgb in Italia e della sua attività - spiega Donno - non si è scritto per moltissimi anni, a differenza di quanto è avvenuto, per esempio, in Francia o in Gran Bretagna. C’è stata una sorta di rimozione silenziosa e, in certi casi, consapevole, poiché si trattava di andare controcorrente rispetto ad un’impostazione egemone nel sistema accademico e universitario, che faceva riferimento alla cultura comunista». Il professor Donno si è dovuto quindi muovere su un «terreno inesplorato», cercando di «gettare un fascio di luce su una parte di una storia sconosciuta: l’azione del Kgb in Italia». Per Donno si è trattato di portare a termine un cammino di approfondimento iniziato con il libro La Gladio Rossa del Pci 1945-1967, nel quale si confuta la tesi che lo scioglimento delle strutture paramilitari del Pci si concretizzò nel 1953, in coincidenza con la morte di Stalin e con quella che lo storico leccese definisce la «costituzionalizzazione» del Pci. «La tesi - continua Donno - è che rimangono in piedi solo le cosiddette “squadre di vigilanza” con una funzione difensiva. Tesi che io contesto: quale funzione avrebbero avuto i 1500 militanti del Pci e del Pcf inviati dei campi di addestramento in Cecoslovacchia o in Urss o addirittura a Cuba?», domanda lo storico, che parla apertamente di elementi «fiancheggiatori» del Kgb. Veri e propri agenti sottoposti a un addestramento articolato su tre livelli di “specializzazione” (guerriglia, sabotaggio e intercettazione) di cui si parla nei Report 118, 156, 158, 160, 161, 162 del dossier Mitrokhin e che contengono le direttive per la costituzione di gruppi di agenti speciali. «Il loro incarico - aggiunge Donno - era quello di allestire strutture composte da agenti in grado di costituire un movimento di resistenza, individuare siti di atterraggio e sbarco, nascondigli e sistemi di comunicazione, di appoggio e supporto alle squadre speciali di spionaggio e sabotaggio. Si tratta di squadre aviolanciate, da Est verso occidente in caso di conflitto». Un quadro dal quale il consulente della commissione Mitrokhin è convinto emerga una «chiara correlazione tra piani di invasione sovietica e le strutture in grado di supportarla».

«Anche se non ho trovato - puntualizza lo storico - i documenti che lo attestino la ricerca ha fornito altri documenti inediti di articolazione a approfondimento, comprese fonti di informazioni interne a Botteghe Oscure».

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