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"La moda? Serve a coprirci" dice il re delle sfilate (che dorme solo nudo)

Modenese, lavorava per Coco Chanel: "La portai a Mosca". E pranzava con la Simpson: "Fossi stato il principe Edoardo, avrei rinunciato anch’io al trono"

"La moda? Serve a coprirci" dice il re delle sfilate (che dorme solo nudo)

Dandyssimo, elegantissimo, profumatissimo, educatissimo, solennissimo, Beppe Modenese, presidente onorario della Camera nazionale della moda italiana, siede sulla poltrona del suo ufficio di Palazzo Cicogna Mozzoni, in corso Monforte a Milano, come un re assiso sul trono. Pur definendosi semplicemente «uno che crede in se stesso e nel suo lavoro», è l’unica persona al mondo che, quanto a titoli, stia alla pari col vicario di Gesù Cristo: otto il Papa, da «vescovo di Roma» a «servo dei servi di Dio»; altrettanti Modenese: «primo ministro della moda italiana» (Women’s Wear Daily); «istituzione» (Franca Sozzani, direttrice di Vogue Italia); «re di mode» (Antonello Aglioti, Magazine sul 2 di Raidue); «uomo più elegante di Milano» (Natalia Aspesi di Repubblica); «ambasciatore insostituibile» (Paola Cacianti del Tg1); «monumento» (Mariella Milani del Tg2); «arbiter elegantiarum» (Moda e modi); «Richelieu della moda» (Gianluca Lo Vetro, il primo giornalista, nel 1987, a occuparsi di sfilate sull’Unità, costretto da Modenese a sloggiare dalle poltroncine d’onore durante un défilé perché aveva una stringa delle scarpe sfilacciata). Se l’industria dell’ago e filo è diventata la seconda d’Italia dopo quella dell’automobile, con 56,5 miliardi di euro di fatturato nel 2009 e oltre 80.000 imprese che danno lavoro a 786.775 addetti, il merito è anche, se non soprattutto, di quest’uomo così defilato e schivo da non essere neppure biografato nel Catalogo dei viventi di Giorgio Dell’Arti. Sua fu l’idea di Milano Collezioni, il più importante appuntamento mondiale con il prêt-à-porter, che da mercoledì prossimo e fino al 28 settembre torna in scena con Milano Moda Donna.
Il public relation, organizzatore di eventi e stratega dell’immagine del made in Italy, tiene sulle ginocchia un cuscino di raso, sul quale è a sua volta assisa Gilda, petulante bassottina di 7 anni. La corona dorata di moplen con incastonati rombi di plastica verdi e rossi a simulare smeraldi e rubini, messagli in capo 15 anni fa dai giornalisti della moda newyorkesi riuniti dalla pierre di Tiffany, è appoggiata di traverso su uno scaffale della libreria, sopra Vaffancolor. Gli faccio notare l’accostamento poco ortodosso. Trasale: «Vaffancolor? Cos’è? Dove lo vede?», e cerca affannosamente il volume per espungerlo dalla biblioteca, senza sapere che si tratta di un’innocente raccolta di vignette di Giorgio Forattini. Non dev’essere poi un monarca così accigliato, se accanto al ritratto del defunto Gian Franco Ferrè («che grande amico, quanto mi manca!») e a tre foto antiche dei suoi cani virate in seppia, tiene anche una sagoma di cartone rosa per disegnare porcellini, due pupi siciliani e varie snowball, le sfere di cristallo con la neve, come la Rosebud che citizen Kane, morendo, lascia cadere per terra in Quarto potere.
È nato ad Alba, ma non vuol dire la data, non l’ha mai svelata a nessuno. Gliela estorco con la promessa di non scriverla, «non vorrei che sembrasse un vezzo da primadonna, non lo è, cerco solo di difendermi come posso dalla stupidità della gente, convinta che le persone anziane debbano essere per forza anche rimbambite». Suo padre Pietro era un industriale, produceva cioccolato. «Uno dei fratelli Ferrero, fondatori dell’omonima azienda dolciaria, da ragazzo lavorava da noi». La madre Teresa, detta Gita, diede alla luce quattro figli maschi. Giuseppe, cioè Beppe, fu mandato a studiare economia e commercio all’Università di Torino, «ma capii subito che non era la mia strada». Se il temperamento artistico si riconosce dall’originalità dei gesti, lo diresti un pittore mancato: afferra un biglietto di Pineider, lo infila per metà nella busta e scrive pochi convenevoli con la stilografica solo prima di sigillarne il lembo di chiusura; accompagnerà un’orchidea «per la signora Feltrinelli», l’editrice Inge, presumo, terza moglie del Che Guevara italiano dilaniato dalla bomba che aveva egli stesso confezionato sotto un traliccio di Segrate. E infatti il giovane Modenese si trasferì a Milano e divenne direttore della galleria d’arte Il Ridotto in via Montenapoleone, facendone il punto di ritrovo preferito dell’alta borghesia meneghina. «Nella mia vita non ho mai sbagliato né i luoghi né le persone. Ma non perché sia bravo: sono state solo coincidenze fortunate».
Cominciamo dai luoghi. Com’era Milano negli anni Cinquanta?
«Una città viva, aperta al nuovo. Mi spaventava un po’ il traffico, già allora. La moda non esisteva. Andavi a un pranzo e vedevi le donne vestite tutte uguali: un abitino nero, un filo di perle. La gente era diversa».
Cioè?
«Più educata».
Parliamo delle persone.
«Fondamentale fu l’incontro con Giovanni Battista Giorgini. Il 12 febbraio 1951 organizzò a Firenze la prima sfilata della moda italiana. Devo molto allo scrittore Alvise Zorzi, il grande paladino di Venezia, che da direttore dei programmi culturali della Rai mi affidò in Tv una rubrica di moda, Vetrine: mi diede visibilità. E anche a Coco Chanel. Nel 1966 non c’era nessuno che volesse accompagnarla a Mosca per la prima sfilata di moda nell’Urss. La Dupont de Nemours, per cui lavoravo, mandò me. Lì imparai a fare tutto con niente, a cominciare dalle passerelle di legno per le modelle. Le donne, che di giorno indossavano la tuta da operaie in fabbrica, la sera arrivavano all’hotel Rossiya con i loro tailleur approssimativi ricavati dagli abiti rivoltati dei mariti».
Ha conosciuto anche Wallis Simpson.
«A Venezia, col marito Edoardo. Andavamo a colazione insieme a Parigi, con la principessa Cateani, proprietaria di una boutique di oggettistica in rue de la Paix. La parola d’ordine era: “Domani, alle 12.45 in punto”. Uscivamo ad aspettarla sul marciapiede, sarebbe stato impensabile riceverla in negozio».
Se lei nel 1934 fosse stato al posto di Edoardo, principe del Galles ed erede al trono britannico, avrebbe abdicato pur di sposare la Simpson?
«Sicuramente. Era una trascinatrice. Impossibile sottrarsi al suo carattere indomito, magnetico».
A quale dei personaggi che ha conosciuto ha voluto più bene?
«Alla principessa Irene Galitzine. Era arrivata a Roma dalla Russia, ancora bambina. La famiglia fuggiva dalla rivoluzione bolscevica. Mi ha presentato mezzo mondo. Conosceva tutti, dalla regina Elisabetta d’Inghilterra a John Fitzgerald Kennedy. Era lei a vestire Jackie, la moglie del presidente».
Memorabile la lode di Modenese alla moglie del sedicente Kennedy italiano: «Finalmente! Flavia Veltroni ha un magnifico portamento e bellissimi lineamenti, grande classe, potrebbe essere una Jackie italiana ma meno arrogante».
«Mai detto».
L’ha scritto tre anni fa Maria Corbi sulla Stampa.
«Può lasciarlo, se crede. Ma sono più amico di Letizia Moratti, che conosco da quand’era bambina. E anche di Maria Pia Garavaglia».
Che in quel periodo era la vicesindaca di Walter Veltroni a Roma.
«Non ho mai avuto rapporti cattivi con nessuno. Chissà, forse dovrei averne...».
Certi biglietti da visita aprono molte porte.
«Veramente la prima volta che bussai alla porta di Michele Guido Franci, presidente della Fiera di Milano, non avevo manco il mio, di biglietto. Gli dissi: non ho un soldo, però ho delle idee, e vorrei portare qui i sarti oggi concentrati a Firenze. Mi rispose: “Ci provi”. La scenografia era tristanzuola, capannoni spogli, freddi. Mi trasse d’impaccio Mariuccia Mandelli, che già allora era un papessa. Fu lei, Krizia, a radunarmi tutti gli stilisti al Savini. Milano Collezioni nacque così».
Il presidente della Camera della moda, Mario Boselli, sembra il suo sosia.
«Lo so. A volte è imbarazzante».
Da chi ha imparato di più?
«Da Diana Vreeland, columnist di Harper’s Bazaar e Vogue. Non era bella. Però ha inventato l’eleganza. Possedeva una gestualità instintiva che non ho mai più rivisto in vita mia. Mi ha insegnato a prendere il lavoro con serietà».
A che servono le sfilate? Al 90% capi che nessuna donna normale indosserebbe.
«È vero. Ma lanciano messaggi a chi si occupa di moda. Del tipo: quest’anno la gonna non usa più al ginocchio, bensì al polpaccio».
E chi decide che la gonna deve allungarsi fino al polpaccio?
«Gli stilisti più importanti. La moda è soggetta ai corsi e ricorsi storici di vichiana memoria».
Quando vede per strada le ragazze con gli anelli al naso e i capelli viola e i ragazzi con i jeans a mezz’asta e gli slip di fuori che cosa prova?
«Un dispiacere, un senso di sconforto».
Quindi è dispiaciuto e sconfortato tutti i giorni.
«Più o meno. Ma è giusto che per un periodo della vita tutti abbiano una certa libertà d’espressione. Meglio da giovani che da vecchi. Alla fine si vestiranno come noi, mi creda».
Perché hanno chiamato lei a organizzare il matrimonio di John Elkann, erede dell’impero Fiat, con Lavinia Borromeo?
«Perché sono amico sia degli Elkann che dei Borromeo. È stato il mio regalo di nozze. Diciamo pure regalone: ci ho lavorato tre mesi».
Accidenti.
«Ho scelto il posto: 700 invitati sull’Isola Madre, al centro del lago Maggiore. Ho scelto le decorazioni. Ho scelto le musiche e l’illuminazione. Ho scelto il menù».
Gianfranco Vissani? Gualtiero Marchesi?
«Daturi e Motta, catering di Torino».
Anna Wintour, potente direttrice di Vogue, la conosce?
«L’ho conosciuta in un modo curioso. Avevo mandato a ricevere una giornalista a Malpensa. L’autista inalberava il cartello “Vogue”. La Wintour, che è impudente, credeva che fosse lì per lei, non chiese nulla e s’infilò in auto. Risultato: l’altra rimase a piedi. Insomma, non è una donna con cui andare a braccetto».
Voleva farvi accorciare la settimana della moda a Milano.
«Non ha mai avuto simpatia per l’Italia. Preferisce Parigi. E vuole imporre gli stilisti americani, come Calvin Klein e Ralph Lauren».
L’ha riconosciuta nella parodia che ne fa fatto Meryl Streep nel film Il diavolo veste Prada?
«Non l’ho visto. Vado poco al cinema».
Dolce & Gabbana hanno ricordato così il loro esordio: «Modenese ci vuole parlare. Ci incontriamo a Firenze, a Pitti. Ci fa: “Ragazzi, siete stati scelti come nuove proposte per Milano Collezioni”. È stato il momento di gioia più grande della nostra vita. Piangevamo, ridevamo, saltavamo».
«Sono fra i pochi che mi riconoscono questa paternità».
Che può dirmi degli stilisti che fanno cucire dai cinesi un paio di jeans per 4 euro nei laboratori clandestini?
«Non so niente degli aspetti commerciali della moda. Non ho mai parlato di soldi. È un mio handicap. Se ne avessi parlato, forse avrei fatto un po’ di soldi anch’io».
Sente sulla coscienza il peso d’aver spinto qualche modella verso l’anoressia?
«Ho sempre consigliato alle modelle di essere belle. Le anoressiche non sono belle».
A che serve la moda?
«A coprirci. E a caratterizzare le epoche. Senza la moda, non ci sarebbe la storia».
Lei da chi si fa coprire?
«Ho due sarti: Caraceni e...». (Sbircia l’etichetta all’interno del doppiopetto). «Ah, sì, Rubinacci. Camicie su misura solo da Siniscalchi, via Montenapoleone, e sempre con i gemelli, un dettaglio a cui non rinuncio mai. Cravatte dove capita, quasi sempre di maglia. Scarpe Barrett di Parma».
Manca solo il profumo.
«Ormonde. Purtroppo non è più in produzione. Lo faceva Floris di Londra. Me ne restano due o tre flaconi. Lo personalizzo con una punta d’estratto di rosa».
Complimenti per il risultato: ricorda Il profumo di Patrick Süskind.
«Grazie, me lo dicono tutti».
Che cos’è l’eleganza?
«Un modo di essere. Una persona è elegante quando si sente a proprio agio negli abiti e non si fa notare. Ci sono giorni in cui indosso pantaloni di velluto, maglia e giacca di fustagno. Arrivo fin sulla porta di casa e torno indietro a cambiarmi».
Chi ha deciso che il calzino bianco che accomunava Enzo Biagi a Piero Angela non è elegante?
«Non c’era bisogno di deciderlo: ricorda l’ospedale, la malattia. La calza va accompagnata alla scarpa. Io, per esempio, porto solo calze rosse però mai con scarpe nere».
Rosse come i cardinali.
«Un vezzo che ho preso dal mio amico Balthus, che le indossava con gli zoccoli. Gli chiesi perché proprio di questo colore. “Perché mi porta fortuna”, rispose il grande pittore. Aveva ragione».
C’è qualcosa che non troveremo mai nel suo guardaroba?
«A parte il calzino corto e gli slip, la canottiera. Non l’ho mai portata. Da bambino aspettavo che mia madre venisse a darmi il bacio della buona notte e poi me la toglievo. Non sono mai riuscito a dormire con qualcosa addosso».
Quindi ora come dorme?
«Nudo. Mi dà un senso di libertà. Però di recente ho preso la broncopolmonite».
Sia sincero: non sono noiosi tutti questi party a cui partecipa da 50 anni, flûte di champagne, inchini, baciamano, «oh, carissimo, che piacere rivederti».
«Sì. Anche se non sempre. Mi ha chiesto d’essere sincero, no?».
Ma un critico, un vero critico della moda, che scrive quello che pensa fregandosene del fatto che i signori della moda sono anche i maggiori inserzionisti pubblicitari, l’ha mai conosciuto?
«Suzy Menkes dell’International Herald Tribune. C’era anche un’italiana».
Appunto: c’era.
«Chi era? Non mi ricordo più il nome...».
(512. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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