(...) per fare pratica, ma siamo rimasti amici.
«Come butta? No, nu me di' gnente, nun vojo sape' gnente. Giuro, col calcio ho chiuso» mi fa con voce strozzata. «Non fare il patetico, che me l'hai già giurato quando siete finiti in B» infierisco io. «E comunque come vuoi che butti: si sono già chiusi in consiglio per deliberare o meno un rinvio. Certo, se la fisiognomica valesse come prova, se ne salverebbero pochi, avvocati inclusi». «La fisioche?».
«Le facce Ciccio, le facce». «Ah, le facce come il c... e come la tua, infame e traditore nordista, perché guarda che in B ce siete finiti pure voi, nun fa' tanto il di più...». «Oh, ora sì che riconosco il mio Ciccio biancazzurro». «None, t'ho detto none. Lo sai dove sto adesso? Sto al Cupolone, a bacia' er pollicione de bronzo della statua di San Pietro. Ho fatto un voto. Vado a messa tutti i giorni per un anno se me sarva la squadra e me toglie Lotito dalle palle». «Ciccio, sei blasfemo». «No, so laziale. Chiamame se ce so' novità, qui l'acustica è uno schianto».
Dall'ultimo anello dell'Olimpico, lo stadio deserto dà dei brividi di tristezza. Mentre il presidente Cesare Ruperto e gli altri componenti della Commissione d'Appello federale si sono riuniti per decidere, io me ne sto qui a fumare. Il celeste sporco delle poltroncine e il giallo sbiadito dei gradini degradano fino al manto verde del campo privo delle porte. A una decina di metri da me un escremento di cane testimonia un malinconico abbandono. Abbracci con lo sguardo la tribuna d'onore, le postazioni video dei giornalisti e provi inutilmente a riempire quel vuoto desolato e desolante e quel silenzio reso ancora più opprimente dalla cappa afosa di una giornata uggiosa con un ricordo, un'immagine, un suono. Niente, non viene fuori niente. Che ci faccio qui? Ti viene da chiederti. Oltretutto non sei neppure Chatwin.
Certe giornate cominciano male la mattina presto, e capisci subito che non potranno fare altro che peggiorare. L'albergo non ti dà la sveglia, ti tagli facendoti in fretta la barba, la prima colazione è da schifo, trovi un taxista logorroico e romanista che mentre tu vorresti dormire ti spiega come nella Città Eterna dopo il Papa ci sia solo Totti, arrivi alla Curva Nord dell'Olimpico che ancora devono aprire i cancelli per la stampa. Al deserto cittadino di San Pietro e Paolo patroni della capitale fa eco il deserto di uno stadio in cui ci siamo solo noi, un piccolo esercito di giornalisti, fotografi, cameramen, un altro piccolo esercito di vigilantes dai nomi e dalle divise bizzarre, una manciata sparsa di carabinieri in mimetica. Se questo è l'effetto che Calciopoli, Moggiopoli, Pallonopoli o come diavolo lo vogliamo chiamare, ha sull'opinione pubblica, allora c'è qualcosa che non quadra. Non uno striscione, non una contestazione, non uno slogan. Il vuoto, il caldo, il silenzio. In fondo, il disinteresse o il disprezzo.
Il tanto decantato show multimediale, il dibattimento in video-conferenza, le tv al plasma, la sala stampa dall'altisonante nome di Piazza Italia è questa misera cosa da Caffè sport in bianco e nero in cui ci sistemiamo, un baretto alle spalle, i cessi in fondo. Più che un processo sembra un esame di maturità e questa sensazione un po' irreale non fa che aumentare allorché, cominciato il collegamento a circuito chiuso con l'aula giudiziaria, il presidente Ruperto fa l'appello con il suo bell'accento calabrese. «Moggi Luciano?» «Assente». «Giraudo Antonio?». «Assente». «Galliani Adriano?». «Presente»... C'è chi alza la mano, c'è chi risponde, gli avvocati cominciano a lamentarsi per il troppo poco tempo avuto per gli atti processuali, nel giro di poco si capisce che si va verso una mediazione, una mano tesa nei confronti delle esigenze difensive in cambio di una rinuncia a istanze di nullità su quel punto. Su queste basi la Corte si ritira.
La telefonata del mio amico Ciccio è delle dieci e trenta, quando da mezz'ora mi aggiro per gli spalti dell'Olimpico in cerca non so nemmeno io di cosa, un'ispirazione, «una frase, un rigo appena», come cantava Luciano Tajoli nell'immortale «Scrivimi»... Un'ora dopo sono di nuovo a Piazza Italia, tutti mangiano, leggono, telefonano, scherzano, qualcuno dorme. A mezzogiorno il presidente rientra, augura «tante belle cose» a imputati e difensori, sottolinea la necessità «di una linea retta verso la meta, che è poi la giustizia, con ragionevolezza ed efficacia», precisa che le udienze a venire avranno ogni novanta minuti una pausa-sigaretta e rinvia tutto a lunedì prossimo.
Fuori fa un caldo bestia, ma noi cronisti non demordiamo. C'è da circumnavigare lo stadio, da nord a sud, per arrivare alla Tribuna Monte Mario, luogo d'uscita per testi e corpo forense. La raggiungo attraverso il Foro Italico, il giro è più lungo e più assolato, ma è in piano e, soprattutto, attraversa luoghi metafisici, le statue di marmo dello stadio di atletica e la Colonna Mussolini, la piscina coperta, i campi rossi di tennis, il colore e il sapore di ogni infanzia romana che si rispetti, quando i genitori scelgono per te uno sport e tu fai di tutto per farne un altro... Arrivo che qualche avvocato fa la ruota davanti a telecamere e microfoni, qualche macchina dai vetri oscurati sgomma via veloce, quella dell'ex presidente Carraro ha persino la scorta che sgomma più di lei e questa è l'unica sensazione processuale dell'intera giornata. Mentre aspetto un taxi mi suona di nuovo il cellulare. «Traditore nordista, allora? Come ha buttato?».
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