Controcultura

Molto difficile da dire chi era Ettore Sottsass

Fabrizio Ottaviani

Erano tutti giovani architetti italiani, ma nel secondo dopoguerra, complice lo scherzo o una scarsa dimestichezza con la geografia, li chiamavano «gli svizzeri»; quanto alle loro teorie, erano solo delle «svizzerate», cioè delle fumisterie nordiche, velleitarie e pericolosamente moderne. Il biasimo colpiva in particolare la funzione che «gli svizzeri» attribuivano al design. Da una parte, infatti, c'erano gli americani, che ragionavano così: visto che la gente deve comprare prodotti, «bisogna fare qualcosa perché ci prenda gusto a comprarli, come la gente per esempio prova gusto a toccare il sedere alle ragazze e le ragazze a farsi toccare il sedere». Dall'altra parte c'era Ettore Sottsass (1917-2007), come a dire una delle matite più celebri nella storia del disegno industriale.

Per accedere alla sua poetica in realtà, si tratta di una filosofia della cultura in filigrana basta sfogliare la raccolta di saggi, riflessioni e pagine autobiografiche di Molto difficile da dire (Adelphi, pagg. 298, euro 15), dove il gioco di sentirsi stranieri in patria viene replicato almeno un'altra volta: quando Sottsass si dà dell'africano che scendendo dal Kilimanjaro passa per Milano e si stupisce delle stranezze degli «indigeni». Prospettivismo che potrebbe essere scambiato per una ripresa del modulo, stancamente illuminista, del famoso persiano di Montesquieu che visita Parigi rimanendo disgustato dal primitivismo dei francesi. In realtà, si vuole denunciare la barbarie del razionalismo occidentale e la riduzione dell'uomo a macchina. Per farlo Sottsass ricorre a termini negli anni '60 impronunciabili: nel pezzo «Design», che ha tutta l'aria di essere un manifesto, partendo da un oggetto qualsiasi la freccia scagliata dal cacciatore, la manopola di un aeroplano, il piano di cottura di una cucina si giunge a parlare di sistemi culturali, di riti, persino di sacro. «Questo insieme di schemi dedicati al disegno dell'ambiente dell'avventura umana io lo chiamo pietà», leggiamo nello scritto dedicato all'ossessione di ogni architetto, la luce. Poco più in là, in margine al progetto di una casa al mare, ci si imbatte in un «orto sacro dove crescono soltanto alberi e funghi: non serve ma esiste».

Anello che lega un demiurgo, un oggetto e un sistema culturale, «il design inizia con la magia», scrive Sottsass.

E forse, a prenderlo molto sul serio, si potrebbe aggiungere che termina in prossimità del religioso.

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