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Il mondo rimpiange Pantani più di noi

Centinaia di firme sul libro di dediche davanti alla tomba. E i ricordi più commossi sono stranieri

Massimiliano Lussana

nostro inviato a Cesenatico

Era sette anni fa ed erano proprio questi giorni. Les Deux Alpes, 27 luglio 1998. Oppure, il Galibier, face nord, dieci chilometri di ascesa, pendenza media dieci per cento. Storia del Tour, storia del ciclismo. Storie che ci sono rimaste appiccicate addosso, sulla pelle. Nonostante Madonna di Campiglio.
Era sette ore fa. Strapiena la spiaggia, strapieno il parco acquatico che spara bambini dagli scivoli proprio lì, a poche centinaia di metri. Un prete che somiglia a George Clooney celebra un funerale nel silenzio quasi irreale in questo contesto dei vialetti del cimitero di Cesenatico, costruito sul ciglio della strada che corre parallela alla statale Adriatica. L’unico rumore fra le tombe è quello della ghiaietta mossa dai piedi degli amici che seguono il feretro. L’unica presenza evocativa sono le rastrelliere delle biciclette, perennemente piene, senza soluzione di continuità fra modelli da corsa e Grazielle, fra tandem e rampichini. Siamo in Romagna mica per niente. L’unica concessione all’ospite più famoso delle cappelle di Cesenatico, un piccolo cartello a fianco dell’ufficio del custode: «Marco Pantani, fila 16». Il cartello è giallo. Se è un caso, è un bel caso.
La tomba di famiglia è proprio lì, vialetto centrale fin quasi alla chiesa, seconda cappella a sinistra. Dentro, una parete di foto in bianco e nero di Marco. In bicicletta, felice, pensieroso, con il Papa. Fiori, regali, targhe di amministrazioni comunali che ricordano il Pirata a modo loro. Pugnali, bandane, componimenti, omaggi vari. Marmi, frasi epiche, ricordi. A cavallo fra il sublime e il kitsch, come è sempre stato il popolo di Marco, nella buona e nella cattiva sorte. Si alternano parole dolcissime e l’armamentario colorato dei tifosi pantaniani, c’è anche un pugnale con inciso sopra il disegno del Pirata con la bandana, quasi un logo d’amore. C’è anche, straziante, una lettera dei familiari di Fabio Casartelli, che era nel cuore di Marco.
Poi, un semplicissimo libro di dediche e pensieri che apre il cuore e le cascate delle lacrime anche dei cuori più duri. Un quadernone a righe, di quelli che usavamo a scuola. Ne riempiono uno intero ogni settimana-dieci giorni. Semplici firme senza nessuna aggiunta. Oppure, secchi «grazie» e non c’è bisogno di aggiungere nient’altro. O, ancora, tentativi poetici, in alcuni casi patetici, in altri commoventi. O brandelli di emozioni personali vissute grazie a Marco. O, ancora, parole bellissime, come quelle di una signora che si firma prima «mamma» e poi «Tonina» e dice cose talmente belle e dolci che sembra davvero mamma Tonina. Non le abbiamo copiate, non abbiamo preso nemmeno un appunto in questa visita, non si rubano le emozioni dai cimiteri. Ma diceva pressappoco così: «Marco, mi manca tutto di te. La tua confusione, tutto...».
E poi - in mezzo a gente che viene da tutta Italia, tantissimi i sardi ad esempio, in media almeno cento firme al giorno - la sorpresa. I messaggi più carichi d’amore, i più caldi, i più dolci, arrivano dal freddo. Sono fiamminghi e valloni, olandesi e francesi, alsaziani e lussemburghesi. Parole dolci. «Merci, Marco». Pensi al Galibier e piangi di nuovo. In silenzio.

Non si può interrompere il rumore dei bimbi e dei loro scivoli d’acqua.

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