Se mancava un motivo per smetterla con l'autocommiserazione sulle presunte torture della Cia ai sospetti terroristi globali, è arrivato ieri: lo Stato Islamico del Califfo ha chiesto il pagamento di un milione di dollari per la restituzione del cadavere di James Foley, il giornalista americano sgozzato e decapitato ad agosto, il primo dei morti per mano dell'Isis. Orrore oltre l'orrore, perché l'oltraggio a un morto è la dimostrazione ulteriore che qui siamo di fronte a qualcosa di diverso. Siamo stati tre giorni a piangere su noi stessi, avvolti dal senso di colpa per ciò che è accaduto dopo l'11 settembre 2001. L'Occidente intero inginocchiato su se stesso pronto ad autoflagellarsi perché ha reagito al più grave attentato della storia con mezzi non convenzionali. Gravi? Sì, gravissimi. Ma gravissima era (ed è) la situazione.
Continuiamo a raccontarci la storia che noi dovremmo essere diversi, perché siamo democratici, siamo civili, siamo evoluti. Perché c'è differenza tra «noi» e «loro». E però mentre noi lo facciamo, prendiamo coscienza che l'altra metà del mondo protagonista di questa guerra asimmetrica continua a uccidere senza alcuna pietà: 5.000 morti in un mese in onore del fanatismo islamico. Ecco la differenza: noi processiamo (soprattutto noi stessi), loro fanno stragi. Allora, che significato ha il nostro senso di colpa? È una sconfitta doppia, perché rende l'Occidente ancora più vulnerabile. Qualcuno davvero pensa che se i Governi usassero solo mezzi totalmente leciti la violenza cesserebbe o si ridurrebbe? Chi lo dice mente. Perché è esattamente il contrario. L'Occidente darebbe il segnale della sua debolezza e presterebbe il fianco a un'escalation del fanatismo. Va capito che anche adesso un pezzo di mondo islamico vuole l'annientamento della nostra cultura. Le torture non sono la risposta, ma sono state un mezzo per combattere il terrore. In un duello con le pistole non ci si presenta con un coltello. Di fronte a chi uccide senza pietà e poi senza vergogna lucra anche sulla sua violenza si può usare ogni mezzo possibile. A volte è l'unico modo di combattere una guerra per la sopravvivenza. Perché non si tratta di vincere o perdere. Ma di vivere o morire.
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