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Se il Giappone di Abe nasconde impiccagioni e decapitazioni

Il pluriomicida 45enne Kenichi Tajiri è stato impiccato all'alba dell'11 novembre. Con la sua morte salgono a 17 le esecuzioni nel Giappone del premier Shinzo Abe

Se il Giappone di Abe nasconde impiccagioni e decapitazioni

Nella prigione giapponese di Fukuoka, all’alba dell’11 novembre, è stato impiccato il pluriomicida 45enne Kenichi Tajiri. Si tratta della terza esecuzione del 2016 e della 17esima dall’arrivo – nel 2012 – del premier Shinzo Abe.

La condanna a morte di Kenichi Tajiri – come si legge sul sito di Amnesty International – è arrivata nel 2012 per due omicidi commessi nel 2004 e nel 2011. Prima di lui, a Pasqua 2016, sono stati giustiziati Junko Yoshida, 56 anni, sempre nella prigione di Fukuoka e Yasutoshi Kamata, 75 anni, nella prigione di Osaka.

La pena di morte in Giappone

Nel paese del Sol Levante la pena di morte viene applicata solo nei casi di omicidio plurimo oppure di omicidio con circostanze aggravanti e, solitamente, avviene mediante impiccagione. Unica eccezione alla regola si verifica nel caso di disastri provocati dagli impiegati del trasporto statale. In questa ipotesi il codice penale nipponico prevede addirittura la decapitazione sul posto.

Le condanne eseguite in Giappone, a differenza di altri paesi in cui è ancora in vigore la legge marziale, non hanno quasi mai eco mediatica in Occidente. La politica adottata dal governo di Tokyo si basa, infatti, sul principio della massima riservatezza. Per farsi un’idea della segretezza che avvolge il destino dei condannati, ad esempio, basta pensare che persino questi ultimi vengono avvisati dell’appuntamento con il boia con poche ore di anticipo, mentre per avvocati e famiglie la comunicazione viene trasmessa a cose fatte. Secondo le stime, attualmente, sarebbero più di un centinaio le persone in attesa di esser giustiziate.

L’opinione dei giapponesi

Secondo i sondaggi l’80 per cento della popolazione nipponica sarebbe favorevole alla pena di morte. A pesare su questa proiezione ci sarebbe lo choc non ancora superato dell’attentato al gas sarin nella metropolitana di Tokyo del 1995. L’atto terroristico, messo a segno dal movimento religioso di ispirazione buddhista ed induista Aum Shinrikyo, causò 13 morti e 6.300 feriti.

Il robusto consenso dei giapponesi alla pratica della pena di morte offre al governo dell’Arcipelago uno schermo dietro cui proteggersi dalle sempre più incisive campagne abolizioniste messe in atto dalle organizzazioni per i diritti umani.

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