
Come si concilierà la nuova «economia di guerra» che l'Europa e l'Italia dovranno adottare in seguito alle sanzioni contro la Russia con la normativa e le indicazioni pervenute dall'Unione Europea in questi anni? È chiaro che per attutire l'impatto delle ritorsioni economiche contro Mosca c'è bisogno di cambiare politiche e i proclami che arrivano in questi giorni dai leader europei vanno a scombinare il quadro, facendo emergere una serie di contraddizioni. Innanzitutto c'è la questione del mais, che l'Italia importa dalla Russia ma anche dall'Ucraina, considerata «il granaio d'Europa», da cui arriva la metà delle importazioni totali verso il nostro Paese. Il premier Mario Draghi dal Consiglio Europeo di Versailles ha indicato la strada: «La risposta è approvvigionarsi altrove: quindi dobbiamo riorientarci verso altri posti, come Canada, Usa, Argentina e altri paesi».
I Capi di Stato e di Governo della Ue in Francia hanno dichiarato che «occorre aumentare la sicurezza alimentare, riducendo la dipendenza dalle importazioni» e che «in particolare, deve salire la produzione di proteine vegetali». Ma su questo punto, per quanto riguarda le importazioni dall'America del Nord e dall'America Latina, spunta una contraddizione con la politica ondivaga dell'Europa sugli Ogm, dato che la stragrande maggioranza del grano che arriva da Stati Uniti Canada e America del Sud è geneticamente modificato e ad oggi in Italia viene utilizzato solo per produrre la gran parte dei mangimi utilizzati negli allevamenti. Sul punto la legislazione europea, ad oggi, rimanda ai paesi membri la facoltà di vietare o di limitare l'uso di determinati Ogm, anche se a cavallo tra gli anni '90 e 2000 in quasi tutta Europa c'è stata una moratoria di fatto sugli organismi geneticamente modificati, provocata dalla chiusura di molti Stati rispetto all'argomento. La selva delle direttive europee emanate negli anni si basa sul cosiddetto «principio di precauzione», ovvero che per la coltivazione e la commercializzazione degli Ogm importati è necessaria un'autorizzazione preventiva e una valutazione del rischio. È ovvio che adesso andranno allargate le maglie della burocrazia. Sempre il premier Mario Draghi nella sua informativa alla Camera del 25 febbraio scorso ha avanzato l'ipotesi di «riaprire le centrali a carbone per compensare il gas russo».
In Italia le centrali a carbone sono sette, a La Spezia in Liguria, Fiume Santo e Portoscuso in Sardegna, Brindisi in Puglia, Torrevaldaliga nel Lazio, Fusina in Veneto e Montefalcone in Friuli Venezia Giulia. Due sono state già riattivate a fine 2021 con l'aumentare della tensione tra Russia e Ucraina e appunto Palazzo Chigi non esclude di rimettere in funzione le altre. Tutto in contrasto con il New European Green Deal presentato a Strasburgo all'Europarlamento a inizio del 2020. Il piano prevede la «neutralità climatica» entro il 2050 e la graduale abolizione del carbone. Tutto da rifare, evidentemente, perché una delle priorità di questa fase è «l'indipendenza energetica» e il carbone potrebbe essere utile a raggiungere questo scopo. Infine un altro cambio di paradigma, non energetico. La decisione di Facebook e Instagram di derogare alle regole sul politicamente corretto e sull'hate speech per quanto riguarda i «discorsi d'odio» contro le azioni della Russia in Ucraina rappresenta una svolta rispetto all'ossessione del gigante social americano sugli insulti sul web.
Twitter addirittura ha bannato a vita l'ex presidente Usa Donald Trump per i suoi tweet ruvidi e politicamente scorretti. E ancora l'Europa vieta l'hate speech all'articolo 14 della Cedu, la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.