Se non ci fosse di mezzo una montagna di quattrini - 1,3 miliardi di dollari per la gioia dei contabili - si potrebbe parlare di legge del contrappasso. È infatti uno strano destino quello di Chiquita, finita nella braccia dei brasiliani di Cutrale e Sanfra dopo aver spadroneggiato, per il lungo e per il largo, sull'intero centro-sudamerica per decenni.
Sarà forse per la natura un po' contorta di quelle stesse banane su cui ha costruito la propria fortuna, ma nella storia di Chiquita c'è stato spesso qualcosa di storto, fino a trasformarla nel Dr. Jekyll e Mr. Hide delle corporation. Così, c'è la capacità imprenditoriale e lo spirito di innovazione già visibili una manciata di anni dopo la fondazione, avvenuta a Cincinnati nel 1871 (la Coca-Cola nascerà soltanto vent'anni dopo) sotto le insegne della United Fruit Company, quando sulle navi bananiere vengono impilate le prime scatole di cartone indistruttibili, destinate a proteggere durante il trasporto il frutto giallo; e anche quando, nel 1904, è la prima azienda al mondo a usare il telegrafo. E c'è poi la ricerca ossessiva della qualità, quella che fa scartare ben la metà dei prodotti destinati all'esportazione. Basta un minimo difetto, un aspetto poco invitante, e la banana non è degna del famoso bollino blu di cui si favoleggia sia ancora appiccicato a mano. Sulla linea d'attacco sono poi schierati, da sempre, i centravanti del marketing.
Dalla banana gonfiabile ai teli mare, dalle penne ai giacconi, dalle palline da golf agli ombrelli, tutto fa brodo per catturare il cliente. E vendere, vendere, vendere (non a caso il fatturato sfiora i 2 miliardi) grazie anche alle campagne pubblicitarie martellanti e ai jingle memorabili. Insomma: 10 e lode in affari.
Ma non c'è solo lo yang. C'è anche un lato oscuro, capace di dare crampi allo stomaco che neppure la dose massiccia di potassio contenuta in un casco di banane può mitigare. Del resto, quando gli scrittori si occupano di aziende, ne viene sempre fuori un cuore di tenebra conradiano. E Chiquita è finita sia nel poema di Pablo Neruda «La United Fruit Co.», sia nelle pagine di «Cent'anni di solitudine», quando il colombiano Gabriel Garcia Marquez racconta la strage del 1928 dei lavoratori-manifestanti in una piantagione del Caribe. Accusata ripetutamente di tenere gli operai in condizioni di semi-schiavitù, di espropriare terreni sotto la minaccia delle armi e di usare pesticidi tossici, United Fruit è stata però soprattutto una potenza che ha condizionato le sorti dei Paesi in cui ha operato. La locuzione «Repubblica delle banane», ancora in voga oggi, fu coniata per il modo disinvolto con cui in Guatemala, negli anni '50, il gruppo Usa nominava dittatori corrotti allo scopo di tutelare le proprie rendite. Altri raccontano di aerei United Fruit impiegati nell'invasione della baia dei Porci per fermare i controrivoluzionari cubani. Negli anni '70 fu poi la volta del Bananagate, con accuse di corruzione nei confronti dell'allora presidente dell'Honduras, Oswaldo Lopez Arellano.
Negli ultimi 25 anni il gruppo ha cercato di rifarsi una verginità, ponendo più attenzione all'ambiente (il 10% dei ricavi va a un fondo per la riforestazione).
Ma nel 2007 è stato condannato dal tribunale di Washington a una multa di 25 milioni di dollari per aver pagato, tra 1997 e il 2004, 1.700.000 dollari ai paramilitari colombiani per difendere i propri interessi. Business is business. Ancora.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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