L’estate 2016 verrà certamente ricordata come quella dell’emergenza profughi, con città come Ventimiglia e Como dove gli immigrati si ammassano e spingono per oltrepassare, senza successo, i rispettivi confini francesi e svizzeri, respinti dalla polizia locale e rimandati in Italia; a questo punto gli immigrati vengono trasferiti nei centri di identificazione ed espulsione sparsi nel Paese.
Il problema dei profughi non può non essere direttamente correlato al rischio d’infiltrazione da parte di jihadisti dell’Isis o di predicatori radicali legati ad associazioni di volontariato che usufruiscono dell’occasione per portare “alimenti e propaganda”, come già visto a Ventimiglia con la presenza dell’attentatore di Nizza, Mohammed Bouhlel, legato all’associazione "Au Coeur de l’Espoir”.
In seguito all’accordo di inizio 2016 tra UE e Turchia sul blocco del flusso di profughi provenienti da est, oggi in Italia la minaccia viene percepita prevalentemente da sud sul fronte libico. Non bisogna però dimenticare che la Grecia si è trovata da subito in prima linea nella gestione dei flussi migratori provenienti da oriente, prevalentemente a causa del conflitto siriano, ma non soltanto; una prima tappa della cosiddetta “rotta balcanica”. Il fatto che gli sbarchi in Grecia siano prevalentemente cessati non implica che nel tempo qualche soggetto a rischio possa essere penetrato in UE.
La prima linea
Tra le isole greche più colpite dall’emergenza-profughi ci sono Chios, Kos, Samos, Leros e Lesbos, tutte a pochissimi chilometri dalle coste turche e mete ideali per i trafficanti di esseri umani in piena attività sulle coste turche.
Tra le associazioni umanitarie più attive a Lesbos c’è l’israeliana IsrAid, giunta in loco nel settembre 2015, in piena emergenza-sbarchi, con un team medico dedito al primo soccorso, nel vero senso del termine, visto che i volontari attendevano letteralmente le barche sulle rive, in costante stato di allerta.
Una delle volontarie di IsrAid operativa sulle coste di Lesbos si chiama Majeda Kardosh, 28 anni, araba israeliana di religione cristiana, originaria di Nazareth, che si è coordinata assieme alla collega Tali Shaltiel, anche lei israeliana e di religione ebraica.
Majeda è un’infermiera con notevole esperienza, lavora al Tel Aviv medical center e come lettrice e coordinatrice presso la Sheonbrun Academis Nursing School e ci ha fornito un quadro estremamente interessante per poter comprendere la situazione sia dal punto di vista umanitario che securitario.
In primis ci fa notare che Lesbos è stata l’Isola più colpita dal fenomeno dei profughi, con quasi 90mila arrivi nel settembre 2015 (quando IsrAid è arrivata in loco) che sono poi diventati circa 135mila il mese successivo per poi giungere a un progressivo decremento che arrivava a 12,452 nel gennaio 2016.
Un decremento dovuto alle cattive condizioni metereologiche che hanno tra l’altro causato migliaia di morti, nonostante i pochi chilometri che separano le coste turche da quelle greche.
Majeda ha poi spiegato che a Lesbos erano attive più di 80 ONG e circa 50mila volontari provenienti da diverse parti del mondo, un fattore che l’ha ulteriormente motivata: “Per me aiutare e fare volontariato è un dovere in quanto essere umano, perché condividiamo tutti la stessa origine, il grembo materno; il resto è soltanto simbolismo che le persone si sono date l’un l’altra e che in molti casi porta a divisioni e conflitti”.
I trafficanti e i profughi
Il 70% dei profughi arrivava dalla Siria e nel momento in cui sentivano Majeda parlare arabo, iniziavano a raccontare le loro storie e le esperienze vissute sul lato turco.
In diversi hanno illustrato il modus operandi dei trafficanti: le persone in procinto di partire venivano fatte attendere nei boschi vicino la costa per poi venire ammassate, circa sessanta alla volta, in gommoni da venti persone. Uno dei profughi veniva obbligato a guidare il mezzo fino alle coste greche, in alcuni casi sotto minaccia di morte, in caso di incertezza. I trafficanti turchi si avvalevano inoltre di contatti siriani che facevano da tramite ed anche da traduttori con i profughi di lingua araba.
Tra i molti siriani (la maggior parte) ed iracheni vi erano molte persone istruite, parliamo di docenti, manager, medici ed anche molti bambini. C’erano persone di tutte le età, il bambino più piccolo che Majeda ha soccorso dalla barca aveva 20 giorni mentre il più anziano 95 anni.
Siriani che si distinguevano anche per una disciplina e una calma certamente inattesa in un contesto così drammatico.
Diversa invece la situazione dei pakistani ma in particolare degli afghani, numericamente inferiori rispetto ai siriani ma definiti più problematici ed aggressivi, oltre alle difficoltà di comunicazione, visto che quasi nessuno di loro parlava inglese o arabo.
La presenza degli afghani e dei pakistani, prevalentemente uomini, non era legata a contesti di guerra e possono essere piuttosto definiti “profughi economici”; se in ambito umanitario possono aver generato problematiche legate agli aspetti logistici e organizzativi, a livello securitario si temono infiltrazioni di estremisti legati a gruppi radicali in Afghanistan e nelle aree tribali del Pakistan o comunque di elementi potenzialmente pericolosi e sensibili alla radicalizzazione. Del resto parla chiaro il caso del diciassettenne di etnia Pashtun, Muhammad Riyad, che lo scorso 18 luglio ha aggredito con un coltello i passeggeri di un treno nei pressi di Wurzburg.
Lo scorso 5 agosto la polizia francese arrestava poi nei pressi di Parigi un profugo afghano accusato di pianificare un attentato.
Insomma, è
evidente come l’aspetto umanitario e quello legato alla sicurezza sono strettamente correlati e non si può non tenerne conto in un momento così critico, anche in Italia, dove il problema legato al rischio di attacchi è reale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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