"Gli Unni? Non furono poi così barbari"

Uno studio sui resti ritrovati in Ungheria svela che tra romani e unni era possibile una convivenza pacifica. "Troppi pregiudizi, gli scrittori antichi hanno esagerato con Attila"

"Gli Unni? Non furono poi così barbari"

Gli Unni non erano poi così barbari. Secondo un’archeologa di Cambrigde, tra i Romani e i popoli della steppa guidati da Attila non fu (solo) una storia di conflitto ma, piuttosto, una convivenza di confine e di importanti scambi economici e culturali. E spunta la polemica che si riverbera sull’attualità: gli Unni vennero praticamente “diffamati” dalle classi dirigenti del mondo romano che ne avrebbero scritto abusando di pregiudizi e stereotipi sul barbaro.

Sono queste le conclusioni su uno studio compiuto da un’équipe di studiosi sui resti di duecento persone ritrovati in cinque necropoli dell’antica Pannonia che oggi corrisponde, grossomodo, all’odierna Ungheria. Secondo le analisi compiute dagli archeologi, tra gli stanziali “romani” e i nomadi unni ci furono rapporti fluidi e proficui, scambi e persino “adozioni” all’interno delle comunità. Che, secondo gli archeologi, smentirebbero il ritratto fosco e semiprimitivo che di loro fecero gli scrittori latini.

Tra le più importanti testimonianze antiche sul popolo di Attila c’è la descrizione dello storico Ammiano Marcellino: “Per quanto abbiano a figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenor di vita da non aver bisogno né di fuoco né di cibi conditi ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale che riscaldano per un po’ di tempo fra le cosce ed il dorso dei cavalli. [...] Adoperano vesti di lino oppure fatte di pelli di topi selvatici, non dispongono di una veste per casa e di un’altra per fuori. [...] Nessuno fra loro ara né tocca mai la stiva di un aratro. Infatti tutti vagano senza aver sedi fisse, senza una casa o una legge o uno stabile tenore di vita. Assomigliano a gente in continua fuga sui carri che fungono loro da abitazione”.

Tutto sbagliato, o almeno esagerato. Gli archeologi, come riporta il Washington Post, hanno lavorato all’analisi delle ossa e dei denti per ricostruire l’alimentazione degli uomini e donne dell’epoca. Mentre gli Unni vivevano di carne, latte e miglio, le popolazioni locali presentavano una dieta più variegata e maggiormente orientata, grazie allo sviluppo e alla pratica dell’agricoltura, su piante e ortaggi. Ma, secondo le risultanze dello studio, alcuni nomadi si sarebbero resi stanziali e, viceversa, alcuni romani sarebbero partiti insieme alla corte di Attila. Tra i due popoli vi sarebbero stati scambi testimoniati, secondo lo studio, anche dal fatto che i locali avrebbero adottato - mutuandola proprio dagli invasori - l'usanza di fasciare il cranio dei bambini per far sì che questo si modellasse verso l'alto, seguendo criteri estetici asiatici. Si viveva insieme, insomma, e si moriva assieme. Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che nei cimiteri venissero sepolti, insieme, romani e Unni.

Per questo, Susanne Hakenbeck, l’archeologa responsabile del progetto dichiara che, secondo lei: “Non fu solo una storia di conflitto ma fu anche una pagina di scambi e di adattamenti fra popolazioni diverse in una zona di confine”. Per la studiosa, i romani delle classi alte descrissero gli invasori Unni in maniera “inappropriata” mentre i ceti popolari vivevano tranquillamente la vicinanza.

Il retaggio unno è vivo in Ungheria e rappresenta un pezzo importante dell'identità magiara. Basti pensare che, assieme al finlandese, l'ungherese è l'unica lingua non indoeuropea parlata in Europa e che, per tutto il Medioevo si susseguirono in tutta l'Europa dell'Est storie e miti secondo cui Cristo in persona avrebbe promesso corone e allori ad Attila nel caso in cui avesse deciso di non attaccare Roma, "completando" così dal punto di vista popolare e apologetico la narrazione del celeberrimo episodio relativo all'incontro con Papa Leone Magno, in seguito al quale decise di non spingere le sue armate verso la Città Eterna.

Storie, queste, che danno una lezione differente anche sul titolo "Flagello di Dio": non perché avrebbe distrutto mezz'Europa nella sua irresistibile cavalcata ma perché avrebbe messo la sua armata al servizio della cristianità per decimare le fronde eretiche.

E quasi mille anni dopo nel Quattrocento, essere considerato "secondo Attila" era vero e proprio titolo onorifico per il sovrano Mattia Corvino, figura iconica e semileggendaria dell'epica magiara.

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