Coronavirus

Virus, i misteri della Cina di Xi e l'Occidente vittima di buonismo

La nascita del gigante comunista, la difesa della globalizzazione, la crisi del coronavirus: la Cina vista da Tremonti, Terzi, Sangiuliano e Pagliare

Virus, i misteri della Cina di Xi e l'Occidente vittima di buonismo

Era il 1944 quando 730 delegati di 44 nazioni si riunirono a Bretton Woods per gettare le basi del sistema di relazioni monetarie internazionali. Diversi anni dopo, con la crisi sanitaria (quasi) alle spalle, è da qui che occorre ripartire per “trovare un luogo di incontro” dove risolvere il “conflitto già in atto” tra potenze e riscrivere “le nuove regole del commercio”. Giulio Tremonti ha lanciato l’idea durante il convegno online sulla Cina organizzato venerdì sera da Eureca in collaborazione con ilGiornale.it, poche ore prima che a Villa Pamphilj il premier Conte radunasse gli Stati Generali dell’economia. Al tavolo mondiale auspicato dall’ex ministro, ben più ampio di quello romano, dovrebbero sedere gli Stati Uniti, l’Europa (“decida se da commensale o da pietanza nel menu”) e ovviamente la Cina. Un modo per provare a risolvere quel “global disorder” provocato dalla pandemia da coronavirus e dalla crescita incontrollata del gigante asiatico.

Già, perché ormai per “capire il mondo” non si può non guardare verso Pechino, nazione che dopo il boom politico ed economico si trova oggi a fare i conti con gli effetti pandemici del Covid-19. “Negli anni passati - ha detto Tremonti - abbiamo coltivato l’idea di spostare in Cina la fabbrica del mondo, considerandolo un Paese in cammino verso la democrazia lasciando così in secondo piano le violazioni dei diritti civili, nella speranza che questo aprisse un mondo migliore per l’umanità”. Una “utopica ambizione” che invece ci ha messo di fronte ad un nuovo attore mondiale, capace tra il 2013 e il 2014 di "cambiare il suo profilo nel rapporto con gli altri Stati e sviluppare sviluppare la sua proiezione geopolitica”. Una proiezione che “non è solo commerciale, ma anche politica” e che nel 2017 ha portato Xi Jinping a Davos a difendere i valori il capitalismo. Proprio lui, in teoria a capo dell’ultimo bastione comunista mondiale.

“Può sembrare un ossimoro che il segretario del Partito comunista cinese vada a Davos per difendere la globalizzazione”, ha spiegato in collegamento Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2 e autore, tra le altre cose, di una biografia del presidente cinese. Ma non deve stupire: perché se Pechino è riuscita a “inocularsi in tutto il pianeta” il merito è proprio alla globalizzazione. “Xi Jinping è arrivato al potere con una linea riformista, ma oggi si è trasformato in qualcosa di completamente diverso”, ha detto Sangiuliano. Il nuovo Xi è capo politico che “porta avanti un dispotismo confuciano di tipo imperiale”, convinto che quello in corso debba essere “il secolo cinese” e ormai diventato “molto più potente di Mao”. Se infatti l’uomo che inventò la rivoluzione cinese “governava in maniera assolutistica un paese di 1 miliardo persone poverissime”, oggi Xi Jinping si trova alla guida “della più grande potenza manifatturiera mondiale che si candida ad essere anche la più grande potenza tecnologica".


(Organizzazione tecnica di Claudio Verzola)

All’incontro, moderato da Angelo Polimeno Bottai, presidente di Eureca e vicedirettore del Tg1, hanno preso parte l’ex ministro Giulio Terzi e Claudio Pagliara, fino a pochi mesi fa corrispondente Rai a Pechino e ora a capo della redazione di New York. Per Terzi la Cina è ancora un Paese “in tutti i sensi comunista con adattamenti strumentali all’economia capitaliasta”, capace di sfruttare il “coronavirus come strumento formidabile per fare salto di qualità nelle volontà di dominio mondiale”. Un Paese dove peraltro, ha raccontato Pagliaro, “un giornalista sa di essere sempre controllato, forse anche durante il sonno”.

Ma ciò che accomuna tutti gli interlocutori è il sospetto che l'Occidente non abbia capito, o anche solo calcolato, i rischi che derivano dalle relazioni con Pechino. Il pensiero corre ovviamente agli accordi italiani sulla “via della seta”, voluti e firmati dal Movimento Cinque Stelle. Quali vantaggi portano all’Italia? Rischiano di metterla ai margini della relazione atlantica con gli Usa, oggi attenti a riequilibrare il contesto mondiale? Oppure sono davvero una opportunità? Per Terzi la via della seta è “il sogno” del M5S di portare nel Belpaese “grandi progetti infrastrutturali, il miglioramento nei mercati e benefici per le nostre aziende” quando invece “nell’ottica cinese si tratta di un accordo unilaterale, sbilanciato e a senso unico”. Non è un caso se Tremonti a gli chiede se la posizione grillina “morbida con la Cina” possa convivere con la posizione ufficiale atlantista, risponde: “Mi fa un’altra domanda?”. “A Trieste - ha spiegato - c’è una ferrovia al porto lunga 1 km per 8 binari. La domanda al governo è: quegli 8 chilometri paralleli servono per caricare merci italiane da portare in Cina? Oppure per far arrivare merci cinesi in Italia da deragliare in Europa?”.

La domanda è lecita, e riguarda l’approccio europeo (non solo italiano) al mistero cinese. L’immagine può essere rappresentata con il Giano Bifronte. “Da una parte - ha detto Sangiuliano - c’è la Cina, una potenza oggettivamente in espansione. E dall’altro lato c’è l’Occidente, evidentemente decadente non solo dal punto di vista economico, ma anche da un punto di vista culturale. Vittima di un ospite inquietante che lo divora come un verme: il politicamente corretto”. A causa di questa “malattia insidiosa”, è la tesi, l’Occidente ha “annullato i propri valori”. E si è trovato disarmato di fronte all’avanzata cinese.

Ripiegandosi su se stesso.

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