Morte al Barbarossa! In libreria il romanzo dell'epica padana

Nel nuovo romanzo di Franco Forte storia e fantasia danno vita ad una saga che farà discutere. E' comparso in libreria un Braveheart in salsa padana, un Gladiatore che si nutre di cassoeula. L'epica tutta lombarda della battaglia di Legnano non è più solo fatta di geometri con lo spadone e di gruppi folcloristici che la domenica vanno in giro con l'alabarda in spalla

Morte al Barbarossa! In libreria 
il romanzo dell'epica padana

Finalmente è arrivato. E' coparso in libreria un Braveheart in salsa padana, un Gladiatore che si nutre di cassoeula. L'epica tutta lombarda della battaglia di Legnano non è più solo fatta di geometri con lo spadone e di gruppi folcloristici che la domenica vanno in giro con l'alabarda in spalla. La compagnia della morte (Mondadori, pagg. 418, euro 20) di Franco Forte, giornalista con il pallino della sceneggiatura e del romanzo, viene a colmare un vuoto, una lacuna nel nostro immaginario storico-fantasy. Perché se il romanzo storico di altri paesi si è, sin dalle origini, dedicato ad inventare eroi di cappa e spada, vedasi Ivanhoe o I tre moschettieri, quello italico più difficilmente si è concesso sbandate epico patriottiche. Alle nostre origini c'è il lombardissimo Promessi sposi che non brilla per avvincenti duelli (escludendo i ricordi di padre Cristoforo). Opere come Ettore Fieramosca o della disfida di Barletta scritta da Massimo D'Azeglio non sono rimaste nell'immaginario collettivo, nonostante gli sforzi di trasposizioni filmiche di ducesca memoria. Sarà che gli italiani sono i primi a denigrare il proprio spirito guerriero, sarà che sono troppo cinicamente autoironici per prendere sul serio l'eroismo dei loro antenati. Franco Forte ha provato invece a toccare davvero i tasti dell'epica, scegliendo come sfondo la battaglia di Legnano, la feroce guerra che contrappose i comuni della Lega lombarda e della Lega veronese alle mire egemoniche dell'Imperatore Federico I, detto il Barbarossa. Lo ha fatto senza mezze misure: un romanzone "pop" pieno di coraggio, di assedi, battaglie, intrighi, belle pulzelle e cattivi che sono veramente cattivi. Lo ha fatto puntando al pathos e alla dimensione eroica, senza farsi ingabbiare troppo dalla necessità di aderire alla Storia con la S maiuscola, almeno non oltre misura. Così i suoi personaggi più belli, come il cattivissimo arcicancelliere imperiale Rainaldo di Darmstadt o il prode Rossano da Brescia, sono pure chimere fantastiche. Del resto anche l'esistenza del mitico Alberto da Giussano, il comandante della Compagnia della Morte che salvò a Legnano le sorti dei collegati lombardi e del Carroccio, non è mai stata provata dagli storici. Ma fare le pulci a Forte, armati di libroni e saggi zeppi di note, sarebbe stupido. Sarebbe non aver capito il senso del romanzo. Cioè la riscoperta del registro epico, la voglia di applicarlo a un pezzo di storia lombarda che se lo merita, con il gusto di creare un "colossal di carta" (Forte è anche sceneggiatore). Valutato in quest'ottica il romanzo è opera riuscita. Le descrizioni dell'assedio di Alessandria, città fortificata che fermò per mesi le truppe imperiali costringendole a uno sfiancante assedio, cattura. La battaglia finale attorno al Carroccio è degna di uno dei migliori bestselleristi americani. Tanto più che nella descrizione di armi, strumenti da guerra e arte del maneggio della spada Forte dà il suo meglio, anche sul versante della ricostruzione accurata. Dappertutto nel testo si sente l'influenza dell'Altieri del ciclo di Magdeburg, indubbiamente l'autore italiano più bravo nel genere storico-fantasy, ma non si tratta mai di un calco, semmai di una lezione stilistica appresa alla perfezione. Meno convincente magari il versante sentimentale, la storia d'amore tra il protagonista principale, il soldato di ventura Rossano da Brescia - che salva prima Alessandria e poi il Carroccio - e la giovane e timidamente conturbante Angelica Concesa. Nelle pagine che la riguardano il cliché ha il sopravvento sul buon utilizzo dei canoni propri del genere. E il tutto assume un aspetto un po' scontato e stucchevole. Questo e il fatto di aver ripetuto il termine Padania un numero imbarazzante di volte, anche quando il lettore ha ormai capito perfettamente che i padani sono padani, sono i veri limiti del libro. Ma l'afflato epico resto e va oltre. Così il testo non soffre più di tanto. Perché chiudendolo ci si scorda dell'amor cortese ma resta nelle orecchie il suono della Martinella la campana posizionata sopra il Carroccio, l'imponente carro da battaglia milanese trascinato da quattro coppie di buoi. Resta il sibilo dei quadrelli da balestra e il rumore sibilante delle spade che fendono l'aria. E nonostante questo è probabile che la critica benpensante snobbi La compagnia della morte o ci spari sopra a palle incatenate (pardon a pietre da catapulta).

Soprattutto qualcuno se la prenderà con l'epica della Lega (politicamente intesa). Pazienza. A Forte e al lettore senza puzza sotto il naso, tutti intenti a urlare "Santambrogio!" nell'attimo della carica, è altrettanto probabile che non importi.

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