La morte di Gui Il galantuomo dello scandalo Lockheed

Luigi Gui aveva lasciato da decenni la scena politica dopo avervi svolto, per lungo tempo, ruoli rilevanti. Era uno di quei notabili veneti ai quali la Dc s’affidava volentieri nei momenti difficili, sapendo di poter contare sulla loro ragionevolezza, sulla loro intelligenza, sulla loro esperienza, sulla loro capacità di mediazione. Mariano Rumor fu l’esemplare più insigne di questi uomini della prima Repubblica, Gui gli si affiancò sia nell’azione di governo - come capace ministro - sia come coimputato nell’affare Lockheed. Che proiettò le sue ombre anche sul Quirinale, e in definitiva fu la causa delle dimissioni di Giovanni Leone, in anticipo sulla scadenza del settennato presidenziale.
Quella vicenda appartiene a un passato remoto, non molti se ne ricordano adesso. Ma ebbe una risonanza clamorosa, squassò le istituzioni e colpì dolorosamente personaggi - appunto Gui, Rumor e Leone - cui le inchieste e le ricostruzioni storiche hanno assicurato o restituito una piena onorabilità. La loro estraneità alla corruzione non significa che la corruzione non ci fosse. Per garantirsi la fornitura all’aeronautica militare italiana di apparecchi da trasporto C 130 Hercules - peraltro eccellenti - l’industria Lockheed aveva distribuito bustarelle in tutto il mondo, Italia compresa. Quando, sulla scia d’una procedura negli Stati Uniti, la magistratura italiana si interessò a quelle bustarelle vennero chiamati in causa i fratelli Antonio e Ovidio Lefebvre, amici del presidente Leone, che gestivano un ufficio affaristico e di arbitrati. I Lefebvre s’erano molto adoperati per introdurre i rappresentanti della Lockheed in alto loco. In una pagina scritta con Montanelli nella Storia d’Italia così abbiamo raccontato il modo in cui Rumor fu avvicinato.
«Rumor aveva ricevuto a Palazzo Chigi alcuni dirigenti della Lockheed presentatigli dal solito clan Lefebvre: e con la sua innata cortesia, aveva amichevolmente annuito a quanto costoro andavano dicendo in inglese. Ovidio Lefebvre fungeva da interprete, e Dio solo sa se e come avesse adattato le frasi degli interlocutori ai suoi disegni di mediazione. Finita l’udienza, i lockheediani s’erano precipitati al telefono per comunicare alla casa madre che il presidente del Consiglio era d’accordo su tutto».
Fu istituita una commissione inquirente che si sostituì alla magistratura ordinaria a norma di Costituzione e che fu chiamata a pronunciarsi sul rinvio a giudizio di Rumor, di Gui e di Mario Tanassi, socialdemocratico. Entrambi - Gui e Tanassi- ex ministri della Difesa. Rumor evitò l’incriminazione con un voto risicato - dieci commissari contro dieci - Gui e Tanassi dovettero affrontare il processo: che poi scagionò Gui e condannò Tanassi a due anni e quattro mesi di reclusione (insieme a lui furono condannati un generale e i Lefebvre). Anni dopo Tanassi disse, in una intervista, d’essere stato lapidato, lui solo, perché era il più debole. «Corrotti per l’ideale, è una consolazione?» gli obiettò l’intervistatore, che era Vittorio Feltri. «Nessuno avrebbe potuto lanciare la prima o la seconda pietra» fu la risposta.
L’onesto Gui era moroteo, e godeva d’una totale fiducia e stima del leader democristiano che sarebbe caduto nell’agguato di via Fani. Moro in prima persona, con una fierezza e con un patriottismo di partito che in lui, di solito così sommesso e dimesso, apparvero stupefacenti, rivendicò - proprio con riferimento allo scandalo Lockheed - l’onore della Democrazia cristiana.

Disse alto e forte che il suo partito non si sarebbe lasciato processare. Fu quello un momento della verità nelle ovattate penombre dei mutevoli ma analoghi governi dello scudo crociato. Gui ne uscì senza macchie. Se ne è andato un galantuomo.

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