da Milano
Riuniva in sé, Desmond Dekker, morto dinfarto ieri a Londra, tutti gli stereotipi del cantante nero approdato alla fama: famiglia poverissima, esordi in cori di chiesa, tirocinio come saldatore in unofficina di Kingston, il ghetto giamaicano dovera nato il 16 luglio del 42. Poi il trasferimento a Londra, la gavetta ai matrimoni degli immigrati giamaicani e infine il boom inatteso, con Israelites, salito in vetta alle classifiche inglesi e americane.
Oggi a Dekker, vero nome Desmond Dacres, viene riconosciuto lalloro di re del reggae e dello ska, «inventore» dunque di un genere che mescolava radici caraibiche e incursioni nella musica nera americana. Genere cui Dekker contribuì a dare popolarità ben prima che Bob Marley, Peter Tosh e Jimmy Cliff, diversamente destinati allaureola del mito, ne facessero la colonna sonora dun irredentismo nero, permeato di richiami religiosi, di citazioni bibliche e di allusioni animistiche.
Dekker arrivò prima grazie anche allapporto del suo gruppo, The Aces, con i quali via via realizzò trionfali tournée e dischi di gran successo: dopo 007 shanty town, del 66, e Unity, del 67, arrivarono appunto Israelites, del 69, nonché la cover dun brano di Cliff, You can get it if you really want, e ancora simposero alle classifiche Rudie got soul, Sabotage, Hey Grandma, Rude boy train. I suoi temi? Lepopea scalcagnata e ribalda dei rude boys, i «ragazzi maleducati» cresciuti negli slums giamaicani e poi ricantati dagli stessi Marley e Tosh, il cui successo intervenne più avanti ponendo in ombra quello di Dekker.
Insomma Music like dirt, come annuncia il titolo dun suo brano emblematico. A corredo, va da sé, duna vita adeguatamente spericolata.
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