Un intrigo russo, ancora una volta a Londra, come sei mesi fa, quando l’ex spia Litvinenko fu uccisa con un’arma invisibile e micidiale: il polonio radioattivo. Il morto, questa volta non c’è, il caso politico sì, con evidenti imbarazzi diplomatici per il governo Blair e per il Cremlino.
Tutta colpa di uno dei personaggi più famosi e controversi della Russia post comunista, quel Boris Berezovsky, che dopo essere diventato stramiliardario durante l’era Eltsin, è entrato in rotta di collisione con Putin. Da sei anni vive in esilio sul Tamigi con lo status di rifugiato politico, ma non ha mai abbassato la guardia. Non è un caso che fosse il mentore proprio di Litvinenko. Sempre sferzante nei confronti del presidente russo, questa volta è andato oltre, scegliendo la provocazione in prima persona e pubblica, attraverso uno dei più noti quotidiani britannici, il Guardian, che ieri mattina sparava questo titolo in apertura della prima pagina: «Sto preparando una rivoluzione in Russia»; sotto, una foto di Berezovsky, in camicia blu senza cravatta, a braccia conserte, lo sguardo grave.
L’intervista è esplosiva. Il magnate russo ritiene che nel suo Paese natale «sia impossibile un cambiamento di regime con metodi democratici»; dunque «bisogna ricorrere alla forza». E al giornalista che gli chiede se intenda fomentare una ribellione a Mosca, lui risponde serafico: «Assolutamente sì».
Già, ma come? «L’unico modo è di opporre una parte dell’élite politica all’altra», spiega da buon conoscitore dei giochi di potere nel Cremlino. Una faida di Palazzo, da provocare ad arte. Berezovsky ammette «di lavorare in questa direzione» e di aver già preso contatti con «diversi esponenti della cerchia presidenziale»; offrendo «la sua esperienza e la sua ideologia», e naturalmente tanti soldi, che certo a lui non mancano: il suo patrimonio è stimato a un miliardo e duecento milioni di euro. «Ho già preso alcune misure concrete, soprattutto di natura finanziaria», afferma. Di che tipo non lo spiega e nomi, ovviamente, non ne fa, «perché se queste persone venissero identificate verrebbero assassinate». Insomma, bisogna agire nell’ombra. Ma se questo è il piano, perché esporsi così? Mistero, di certo è inverosimile che Berezovsky abbia agito d’impulso. Se voleva far infuriare il Cremlino c’è riuscito, ma forse ha sbagliato i calcoli; a pagare il prezzo rischia di essere proprio lui.
La reazione del governo russo non si fa attendere ed è durissima. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov chiede a Londra di privare il miliardario ribelle dello status di rifugiato politico, mentre il procuratore generale Yurij Chaika ne sollecita l’arresto e l’estradizione. Anche Blair è furioso e mentre in passato aveva tollerato le intemperanze verbali di Berezovsky, questa volta appare assai meno conciliante. A un portavoce del Foreign office fa dire che «il governo deplora chiunque approfitti dell’ospitalità del Regno Unito per sollecitare il rovesciamento con la violenza del governo di un Paese sovrano». Scotland Yard apre un’inchiesta «per valutare se ci siano gli estremi di reato». È un doppio avvertimento. Berezovsky capisce e tenta di correggere il tiro: «Sono a favore di un’azione diretta contro Putin. Non sostengo, né incito alla violenza», precisa, ma poi spiega di mirare «a metodi incruenti, sull’esempio delle recenti dimostrazioni popolari in Georgia e Ucraina». È lo scenario che tormenta il Cremlino.
Non è probabilmente un caso che proprio ieri il Parlamento russo abbia approvato una mozione in cui accusa gli Stati Uniti di «interferire nel processo politico interno del Paese, finanziando e addestrando gruppi politici radicali». I toni sono da Guerra Fredda, il riferimento tutt’altro che misterioso.
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