Mubarak lascia. Anzi no: «Ora basta violenze»

Il CairoIl Faraone se ne va. Anzi resta al suo posto: «Il governo si dimette - annuncia Hosni Mubarak nell’appello che la rivolta lo costringe a lanciare in tv - Da domani ne nominerò un altro. Ma adesso smettetela con la violenza». Attacca per difendersi: «C’è un complotto per destabilizzare la società, sono stati degli infiltrati a provocare il caos: i nostri obiettivi non saranno raggiunti con la violenza ma con il dialogo nazionale». Non si sa se l’appello a farla finita con la violenza basterà, quasi certamente no. Ieri sono scesi in piazza a migliaia nonostante il divieto del regime e hanno sfidato i cordoni della polizia, i lacrimogeni, i proiettili di gomma, i bastoni degli agenti in borghese, posizionati ad ogni angolo di strada. Ieri mattina al Cairo c’era una calma irreale. Venerdì è il giorno del riposo islamico. L’appuntamento per l’opposizione era dopo la preghiera, davanti alle moschee. Il regime era pronto da ore, e non soltanto con un dispiegamento senza precedenti di forze dell’ordine. La polizia ha bloccato tutti i ponti sul Nilo e l’accesso alla piazza centrale, Midan Tahrir. L’Egitto di Hosni Mubarak, spaventato dalle grandi manifestazioni di martedì, organizzate anche grazie all’aiuto dei social network e di semplici sms, ha preso misure inedite. Il governo ieri ha bloccato le comunicazioni, dalla mezzanotte di giovedì nella capitale ha smesso di funzionare Internet, tutte le reti di telefonia mobile sono state bloccate: ma un tamtam su Twitter suggerisce un modo per aggirare l’ostacolo e mantenersi collegati al web. Nonostante gli sforzi del regime, dunque, in diversi quartieri del Cairo, dalle zone centrali lungo il Nilo fino al cuore islamico della capitale, dove si trova la moschea di Al Azhar, migliaia di persone sono scese in strada.
La rivolta si è estesa a tutto l’Egitto e la risposta del regime è stata dura: tra i manifestanti si contano almeno una ventina di morti in tutto il Paese (5 al Cairo) e 870 feriti solo nella capitale. Mubarak ha inviato l’esercito, che gli è storicamente stato fedele, a rilevare la polizia. La situazione che ne è seguita non è chiara: c’è chi riferisce di episodi di fraternizzazione tra militari e manifestanti (soprattutto ad Alessandria, dove l’arrivo dei soldati è stato festeggiato) e chi addirittura di scontri tra polizia ed esercito. Al calare della sera è stato imposto il coprifuoco in tutto il Paese. In diverse località però i manifestanti lo hanno ignorato e ci sono state sparatorie: a Port Said un ragazzo di 14 anni è stato ucciso.
Le scene viste nella capitale sono drammatiche. Nel primo pomeriggio, il ponte principale per accedere alla piazza Tahrir era bloccato da polizia e manifestanti e un’ambulanza cercava di farsi largo tra i giovani, fra evidenti scene di panico. A casa di Ziad sono arrivati i ragazzi fin dalle prime ore del mattino. Nella sala da pranzo, il tavolo è imbandito come una festa di compleanno. Ziad el Alimi ha 30 anni ed è un attivista nel gruppo di ElBaradei, il Movimento nazionale per il cambiamento. La sua è una famiglia che ha sempre fatto politica. «Mio nonno è stato arrestato da Gamal Abdel Nasser, mia madre da Anwar el Sadat, e io ho Mubarak», dice scherzando Ziad, che è stato in prigione già diverse volte. Tra una tazza di tè e un piatto di olive, i ragazzi si preparano alla manifestazione. Ahmad ha 22 anni, Omar soltanto 19, Salma 22, ma segue le proteste da quando ne aveva 16. Per arrivare al corteo i ragazzi camminano in gruppi di due, massimo tre persone. Hanno fasce in tessuto per eventuali ossa rotte, e le mascherine da chirurgo contro i lacrimogeni, «da bagnare con la coca-cola, ci hanno detto su facebook i tunisini».
I telefoni restano muti e internet è inutilizzabile. «Abbiamo sfruttato la rete fissa e ieri ci siamo incontrati per organizzare le proteste. Sapevamo che oggi le comunicazioni sarebbero state inesistenti», spiega Ziad. E infatti, lungo la via principale del quartiere di Mohandessin sono migliaia le persone che sfilano, bandiere egiziane alla mano. Nessuno slogan religioso: è questo l’accordo preso tra le opposizioni e i Fratelli Musulmani. «Scendete, scendete in strada egiziani», chiedono i ragazzi facendo segno alle persone sui balconi di unirsi al corteo. In piazza non ci sono soltanto gli attivisti come Ziad, Salma, Omar e Ahmad. Ci sono giovani donne come Doa, 34 anni, impiegata in un supermarket che non ha mai fatto politica ed è alla sua prima manifestazione. È scesa in piazza perché semplicemente stufa del regime. Un signore di 50 anni, ingegnere, è lì con la figlia di 19 anni, la moglie e la suocera: «Dopo 30 anni è ora che il regime se ne vada». Pochi secondi più tardi, la polizia inizia a lanciare lacrimogeni per disperdere la folla.
Ancora in serata al Cairo gli scontri divampavano. La sede del partito di Mubarak è stata incendiata e quelle della Tv di Stato e del quotidiano filogovernativo Al Ahram prese d’assalto. Le strade erano ancora affollate ed elicotteri volteggiavano a sostegno dell’esercito, che presidiava il cuore della città coi blindati.

Un altro manifestante è stato ucciso nei pressi del celebre Museo Egizio, minacciato dalle fiamme e fatto oggetto, secondo testimoni, di razzie nel pomeriggio: tanto che la televisione ha reso noto che unità dell’esercito sono state inviate a proteggerlo. «Domani farò un altro governo» giura il Faraone. Nella notte, giurava Al Jazira, decine di uomini d’affari prendevano il volo per scappare dall’Egitto.

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