Controstorie

Il muro cristiano di Mahardeh che ha fermato gli assalti jihadisti

La città si è stretta al generale Alwakeel, un imprenditore che ha indossato la divisa e che ha guidato la resistenza. Pluridecorato da Damasco e ammirato da russi e iraniani

Sebastiano Caputo

da Mahardeh (Siria)

L'enclave della Ghouta è caduta sotto i colpi, incessanti, dell'aviazione, mentre l'Esercito Arabo Siriano, insieme agli operatori della Mezzaluna Rossa, apriva i corridoi umanitari per far evacuare i civili e negoziare lo spostamento dei jihadisti verso Idlib. È in quella roccaforte, prima ancora che a Deraa, nella parte settentrionale, che si sta spostando la prima linea, e forse l'ultima, del conflitto siriano. I pullman verdi con dentro gli uomini, kalashnikov in spalla, circondano Damasco, attraversano Homs e Hama, per giungere a destinazione dove ad attenderli ci sono tutta una serie di fazioni, alcune finanziate dalla Turchia, altre dal Qatar, altre ancora dall'Arabia Saudita. I loro volti consumati da un assedio durato più di cinque anni si sporgono fuori dal finestrino, gli occhi fissano il vuoto, una Siria che probabilmente non rivedranno più. L'inferno non è finito.

Le città sulla linea del fronte sono state già avvertite, è ora di prepararsi alla battaglia finale. Tra queste, sopra una piccola collina, c'è quella cristiana di Mahardeh, diventata famosa in tutto il Paese per aver resistito fin dall'inizio del conflitto alle offensive dei jihadisti. Una vera e propria diga che in tutti questi anni ha bloccato l'avanzata dei combattenti di Jabhat al Nusra verso Damasco ed evitato il ricongiungimento geografico con la sacca di Hama. Ma la sua storia è strettamente collegata alla vita privata di Simon Alwakeel, il Generale. Senza di lui Mahardeh sarebbe caduta al primo attacco.

La sua casa si trova non lontano dal centro. Intorno i soldati fanno le ronde, i droni sorvegliano ogni passo. I jihadisti hanno stilato una lista degli uomini da uccidere il prima possibile e Simon Al Wakeel è in terza posizione, dopo il druso Issam Zahreddine che resistette per più di tre anni a Deir Ezzor circondato dai miliziani dello Stato Islamico e Suheil Al Hassan, il comandante delle Forze Tigre siriane pluridecorato al valore militare per non aver mai perso una sola battaglia. Il profilo del capo della difesa nazionale di Mahardeh non è tanto diverso da loro. Prima che cominciasse la guerra faceva il costruttore, era uno degli uomini più ricchi della città, poi nel 2012 rapirono il figlio Fahed che allora si trovava al nord di Aleppo per svolgere il servizio militare assieme ad altri 150 ragazzi. Ma i ribelli dell'Esercito Siriano Libero circondarono l'accademia e dopo sei mesi di resistenza i militari si arresero.

Fahed è accanto al padre nel salotto di casa, sul volto si leggono ancora le ferite traumatiche di quei giorni. «Eravamo assediati da cecchini e uomini armati, avevamo finito le sigarette, fumavamo il tè, mangiavamo l'erba racconta con lo sguardo basso e più il tempo passava più alcuni di noi morivano sotto il fuoco dei ribelli, ne abbiamo sotterrati una trentina in quei mesi». Quando si arresero, sapevano che tra loro c'era anche Fahed Alwakeel, il figlio di Simon. «Domandarono subito un milione di dollari per la mia liberazione, altrimenti mi avrebbero ammazzato», aggiunge. Simon Alwakeel è seduto accanto, ride. «Gli dissi che se gli avessero sfiorato un capello, li avrei uccisi con le mie mani, ma dopo 60 giorni di prigionia decisi di pagare per Fahed e per il suo migliore amico Salem, che nel frattempo era stato trasferito a Idlib». Salem, anche lui cristiano, conosceva le lingue tra cui il francese e l'italiano, così invece di tenerlo in carcere lo fecero lavorare per più di un mese con i giornalisti occidentali. «Già nel 2012 Idlib era diventata una roccaforte islamista, c'erano già combattenti stranieri - spiega il giovane -, io ero costretto a fare quello che mi ordinavano altrimenti mi avrebbero tagliato la gola. In quei giorni accompagnai principalmente giornalisti nordeuropei, i reportage duravano sì e no quattro ore, poi questi tagliavano la corda. Grazie a Dio Simon ci ha tirati fuori da quel postaccio».

Fu proprio quando la guerra arrivò alle porte di Mahardeh che il Generale decise di finanziare da solo la resistenza. «Prima della guerra giravo il mondo in business class, mai avrei pensato di ritrovarmi con una divisa a capo della difesa nazionale», esclama Simon. Nessuno si aspettava una reazione così decisa e positiva da parte dei cittadini. «Quando il pericolo incombe e il nemico ti minaccia, la reazione della gente può essere sorprendente, qui l'economia girava, le persone vivevano bene, avevano tutte le libertà che la Siria tutela. Temevano che gli abitanti ci avrebbero considerati dei matti e che avrebbero preferito fuggire. Invece tutti hanno appoggiato la resistenza», racconta in esclusiva a Il Giornale Simon Al Wakeel. Ciò che colpisce di quest'uomo è l'umiltà. «Sarei potuto andarmene via dalla Siria, portarmi tutti i miei soldi all'estero, invece ho deciso di rimanere per difendere la mia famiglia, la mia comunità, la mia patria, e ti dirò, da quando non ho più soldi in banca sono un uomo felice». Prima che scoppiasse la guerra aveva un tumore, pagò le cure e iniziò la chemioterapia. «Più il tempo passava più il mio corpo si affaticava, ricordo che non riuscivo nemmeno a fare una passeggiata. Poi, da quando ho indossato questa divisa è cambiato tutto, non chiedermi perché, non so darti spiegazioni, ma sono guarito». Simon ha partecipato a tutte le operazioni militari di Mahardeh tanto che ha nove pallottole in corpo. I suoi uomini lo chiamano «il miracolato». Più volte hanno provato ad ammazzarlo imbottendo di esplosivi la sua auto, eppure è sempre riuscito a scamparla. «Non credevo in Dio, ricordo che mia moglie mi trascinava di forza a messa la domenica. Ora ringrazio Dio ogni giorno, è Lui che mi tiene in vita, assieme a questa maledetta guerra».

Il Generale Al Wakeel ha conquistato il rispetto di tutti in Siria, persino all'estero. «I russi qui si coordinano con noi prima di ogni operazione, senza il nostro consenso non agiscono, ci chiamiamo sadiq (amico, ndr), beviamo il tè assieme». E poi ci sono gli iraniani. Qasem Soleiman, il comandante delle Brigate al Quds - i reparti speciali dei Pasdaran iraniani - un giorno si è presentato a casa sua perché voleva conoscerlo di persona e stringergli la mano. «Quando lo vidi arrivare rimasi sorpreso, quasi non ci credevo, era accompagnato da altre persone». Soleiman rimase a casa di Simon per più di quattro ore, si felicitò per il suo operato sul campo e poi scomparve nel nulla. «Non bevve tè, né caffè, non fumò nemmeno una sigaretta, mi ascoltò con attenzione, mi ringraziò e disse che avrebbe partecipato alla resistenza in qualsiasi modo». Qualche settimana dopo dei suoi delegati ritornarono per firmare un'intesa: i soldati cristiani di Mahardeh sarebbero stati addestrati in Iran dai Pasdaran. Sulla prima linea della città tutti i responsabili delle postazioni militari sono stati lì. Tra questi c'è il comandante Georges, 40 anni, una croce tatuata sul braccio.

«Il supporto che ricevemmo fu provvidenziale, nei primi tempi la situazione era tragica, eravamo abbandonati a noi stessi perché il governo non riusciva a tenere tutti i fronti, poi molti di noi non avevano mai combattuto tantomeno svolto il servizio militare - racconta a Il Giornale così ci vennero a prendere in aereo e ci portarono a Teheran. Noi eravamo cristiani, loro sciiti, ma c'era un rispetto reciproco, la fede ci univa contro lo stesso nemico». In questa internazionale anti-jihadista a Mahardeh ci sono anche i francesi dell'associazione SOS Chrétiens d'Orient. «Abbiamo appena finito di ricostruire una scuola che consente a più di cento bambini di avere un luogo sicuro dove studiare, e sosteniamo economicamente l'unità di soccorso della città, un progetto straordinario di cui non sentirete parlare in Occidente», spiega Alexandre Goodarzy, capo della missione. In effetti è piuttosto interessante.

Intanto dall'alto della collina, sulla prima linea, già si intravedono le colonne verdi dei pullman che si dirigono verso Idlib.

Georges poggia il binocolo, accarezza il kalashnikov, sorride: «Non vedevamo l'ora che arrivassero vero Generale Simon?».

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