Teatro

"La musica di Bowie mi ha salvato la vita. E io lo faccio risorgere con il mio Lazarus"

Il regista porta in scena il musical con l'aiuto di Enda Walsh e Manuel Agnelli protagonista

"La musica di Bowie mi ha salvato la vita. E io lo faccio risorgere con il mio Lazarus"

Nascono dalle sue passioni e dalle sue ossessioni, le scelte del regista e direttore di Ert-Emilia Romagna Teatro Valter Malosti. Che si tratti di una lettura accompagnata da proiezione di capolavori - come quella di Maddalene, tratta da alcuni scritti d'arte di Giovanni Testori, che porta in giro dal 2007 - o di un colossal come Lazarus - il musical di David Bowie e Enda Walsh che ha diretto e adattato (il testo sarà pubblicato con la Nave di Teseo a maggio) - Malosti, torinese, classe 1961, trasforma ciò su cui lavora nel «suo» teatro.

Senza proclami di poetica, ma con molti numeri all'attivo: Lazarus è avviato ovunque al tutto esaurito (per il 2023 sono previste 65 repliche, all'Argentina di Roma sarà in scena fino al 23 aprile, poi Bologna, Napoli, Milano, Torino. Solo a Cesena e Modena lo hanno visto già in 8000) mentre la sua stagione in corso per Ert ha previsto 100 titoli. «Turn and face the strange»: «Voltati e affronta l'ignoto», dice la frase di Bowie tratta da Changes che Malosti ha fatto stampare sulle shopper che vanno a ruba tra i fan del musical. E lui non se lo fa ripetere: in scena per Lazarus ha piazzato 18 performer tra attori e musicisti. Una produzione diversa da quella che Bowie vide nel 2015 a Londra poco prima di morire: un palco dentro il palco, videoproiezioni, un cast tra danza, musica e teatro. C'è Casadilego, vincitrice di XFactor l4, c'è la coreografa e ballerina Michela Lucenti e c'è la star degli Afterhours Manuel Agnelli nel ruolo del protagonista, il viaggiatore interstellare Thomas Jerome Newton. Ruolo che fu di Bowie in L'uomo che cadde sulla Terra, il film del 1976 di Nicolas Roeg tratto dal romanzo di Walter Tevis e recuperato, insieme al commediografo irlandese Enda Walsh, proprio per Lazarus.

Da dove arriva questo Lazarus?

«Dalla mia passione per il teatro e la musica mescolati e da un'occasione personale: conosco bene Enda Walsh e avevo già messo in scena il suo Disco Pigs. Nel 2015, prima ancora che andasse in scena, avevo sentito Walsh: avere i diritti di questo lavoro è stato lungo, complicato, dispendioso. L'ho messo in cantiere con Teatro Piemonte Europa, che dirigevo prima di Ert».

Non si è lasciato spaventare.

«Sono quelle follie che nascono a istinto pochissimo ragionante. Non ho pensato al successo commerciale: in questo momento serve non chiudersi, non essere vittimisti, non guardarsi l'ombelico, esprimere energia vitale».

Perché proprio Lazarus?

«Heroes di Bowie, che ora chiude lo spettacolo, è stato il mio primo disco non usato, comprato a 16 anni, nel 1977, quando avevo già ottomila vinili. Lazarus parla a tutti, eppure è intimo: è una ferita profonda che sentiamo nostra. Non si tratta soltanto di fare una cosa popolare: il mistero che c'è nella musica di Bowie è evidente. La natura divina che si è sviluppata intorno a questa figura restituisce una meraviglia più istintiva che razionale».

Istintivo è anche il suo modo di fare teatro?

«Mi è sempre interessato un teatro in cui l'emozione è al primo posto. Non vorrei mai essere tiepido, a costo di essere rozzo e sbagliare. Avevo la mia piccolissima compagnia indipendente, Teatro di Dioniso e puzzavamo di fame, come si dice: ogni anno non sapevo se avrei potuto mantenere mia figlia l'anno successivo. Una situazione triste in cui si trovano tantissimi miei colleghi: riuscivo a inventarmi sempre qualcosa. Ho diretto la scuola per attori dello Stabile di Torino e ai ragazzi dicevo: Fai qualcosa di tuo, di parallelo, l'arte è fatta apposta per andare oltre i limiti».

C'è bisogno di dirlo, agli artisti?

«Oggi c'è molta autolimitazione: in generale riscontro mancanza di coraggio. Ma per fare l'amore ci vuole coraggio e il teatro è come fare l'amore: ha a che fare con il godimento, va al di là della ragione, è il corpo che non sta nella pelle, il beat. La gente con Lazarus si alza in piedi. È chiaro che adesso tutti diranno: Va beh, dirige uno dei principali teatri nazionali, bella forza».

E lei che risponde?

«Che non è vero, che è una follia anche così, da direttore».

È una produzione onerosa, che vede coinvolti lo Stabile di Torino, Roma, Napoli, il Lac di Lugano: come ci è riuscito?

«Sono una goccia: molto testardo. È stata dura non solo dal punto di vista economico, ma della struttura. Unire le arti, musica, teatro, danza, canto. Poi le drammaturgie parallele come videoarte, luci, scena, suono, gli arrangiamenti su cui abbiamo lavorato in modo che non fossero semplici cover. Il pubblico italiano e gli addetti ai lavori non sono abituati ad avere uno sguardo sinestetico come questo, ma non importa: il teatro è effimero, lo devi guardare per come è quella sera, per come stai, non devi per forza capire tutto».

Che cosa l'ha ispirata?

«Il mio amore adolescenziale per le voci. Io non arrivo da una famiglia con la cultura al primo posto: era dignitosissima ma povera. Sono un ragazzo di periferia, molti dei miei compagni di gioco di quegli anni di piombo sono morti per overdose o finiti in galera. L'attrazione per la musica mi ha salvato la vita e tre figure numinose: David Bowie, Demetrio Stratos, Carmelo Bene. Per me sono semidei».

Com'è gestire soldi pubblici?

«Sei come il selezionatore della nazionale: qualcuno rimane sempre scontento. Rischiamo sale vuote e i miei mi criticano perché metterei dentro tutto. Vorrei il teatro aperto il più possibile: sono distantissimo dal teatro sociale, ma vorrei abbattere il timore di entrare nei luoghi aulici. A Bologna accanto al teatro c'è un chiostro del '400, che ho voluto sempre aperto: i giovani stanno nel chiostro mentre di là c'è uno spettacolo. Non importa se non vengono a vederlo, non sono un venditore di tappeti: ho in mano un bene pubblico e devo farlo diventare di tutti. Poi, magari, un giorno entreranno».

Tra le sue grandi passioni ci sono Testori e Pasolini.

«Nel 2002 sono andato in scena con il Coro Bajolese e Giovanni Moretti nella chiesa di San Bernardino a Ivrea concessa dalla famiglia Olivetti con il testo G. Martino Spanzotti. Gli affreschi di Ivrea di Testori. Quel progetto mi ha segnato per sempre. Poi ho fatto le Maddalene, Passio laetitiae et felicitatis, l'Arialda, la Monaca di Monza fino a Cleopatras: una lingua corporea, violenta, magnifica nella sua costruzione totalmente artificiale, da mangiare, inghiottire, succhiare e poi rispedire agli ascoltatori. Pasolini è un altro progetto folle - e senza finanziamenti, perché per lui non c'è nessun interesse. Volevo far ascoltare tutte le tragedie che ha scritto dagli anni 60: un repertorio quasi sconosciuto al pubblico oggi. Mi sono accorto di come la nuova generazione di attori come Gabriele Portoghese e Federica Rosellini che faranno Orgia (dall'11 maggio al Delle Moline a Bologna) - viva Pasolini senza il nostro sovraccarico ideologico libresco, ma con concretezza».

Il suo Pasolini andrà in tournée a Madrid, Lisbona, Liegi. Ne esportiamo, di teatro?

«Pochissimo. C'è un pregiudizio nei confronti degli artisti italiani. Poi ci leggono e dicono: Ah, però i testi sono intelligenti. Ma è un terreno minato. Pippo Delbono, Alessandro Serra, Emma Dante, Romeo Castellucci: all'estero si sentono sempre gli stessi nomi. Preferiamo ospitare che esportare».

Ma Bowie l'ha conosciuto?

«L'ho visto in aeroporto una volta, ma non l'ho voluto avvicinare.

Mi è successo lo stesso con Carmelo Bene: preferisco una distanza che me li conservi semidei».

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