Milano Intanto loro vanno avanti, sera dopo sera, in quello che è forse il tour più commovente della storia del pop italiano. Standing ovation a ogni concerto, striscioni da spezzare il cuore, appostamenti dei fan fuori dagli alberghi, pioggia di biglietti, messaggi, cori. Lo sapete tutti: dopo quasi quarant’anni insieme, Stefano D’Orazio ha deciso di lasciare i Pooh e perciò ciascun concerto è una festa d’addio (prossime date: stasera all’Arena di Sabaudia, domani a Paestum, venerdì a Lamezia e via così fino alla chiusura il 28 e 30 settembre al Forum di Assago). Nemmeno a dirlo, tutto esaurito quasi ovunque. E, naturalmente, clamorose dimostrazioni d’affetto dei fan. D’improvviso si sono trovati di fronte all’ipotesi che, senza D’Orazio, il gruppo italiano più longevo e popolare rischia di appendere la sua storia al chiodo e tanti saluti a tutti. «In realtà non sappiamo ancora che cosa faremo - dicono loro sulla strada per lo stadio di Miranda, provincia di Isernia -, però ne stiamo parlando e al momento siamo 50 e 50. Ma, se continueremo, lo faremo in tre, nel gruppo non entrerà nessun altro. E la nostra sarebbe un’attività più concertistica che discografica. Il vero problema è che siamo una realtà così bella che non ci va di fare come tante altre band che, pur di proseguire, hanno opacizzato la loro storia».
In effetti, i Pooh sono ormai un patrimonio culturale italiano che va ben oltre la musica: sono un pezzo di tradizione e, volendo, anche una dimostrazione di quella serietà creativa che, soprattutto oggi, è un esempio raro, quasi didattico e guardate in giro se ne trovate altri alla stessa altezza: zero. «Iniziamo il concerto con Anni senza fiato del 1982 e poi Stefano parla al pubblico, spiegando la sua decisione di lasciare la band. E dopo, ogni volta, il pubblico si alza e applaude in una standing ovation che durante la prima sera ci ha fatto piangere tutti. Idem dopo il brano Parsifal, tutti in piedi, ogni sera, incredibile». I palazzetti e gli stadi sono foderati da striscioni che, giocando con i titoli delle canzoni, invitano D’Orazio a cambiare idea. E, stavolta, davanti agli alberghi i fan sono più numerosi che mai: «Ci chiedono: ma allora è vero, qualcuno non ci crede ma poi si convince che è proprio così». L’altro giorno un signore è arrivato con le sue figlie e in poche parole ha detto: cari Pooh, le ho fatte crescere con le vostre canzoni, dovrete pensare anche a questo quando deciderete del vostro futuro. «E in effetti - spiegano loro - queste sono frasi che ti lasciano senza fiato, quasi impauriti da una responsabilità così grande».
Perché tanta commozione? Perché i Pooh hanno accompagnato tre generazioni di italiani che magari non hanno comprato tutti i loro dischi né hanno fatto la fila a ogni concerto ma li hanno adottati come punto di riferimento, li hanno accolti in quell’immaginario collettivo che trattiene gli autentici simboli del nostro tempo. Loro, Red Canzian, Dodi Battaglia e Roby Facchinetti, ci ridono su, per esorcizzare l’emozione. E poi lanciano la battuta: «Il nostro è un tour da Facebook perché salta fuori gente che non vediamo da trent’anni, come i tecnici dei primi concerti, uomini che oggi fanno un’altra vita, hanno famiglia, figli, persino nipoti. Tornano anche le nostre vecchie ragazze, quelle che allora si chiamavano groupies e ci adoravano e oggi sono signore di mezz’età». Dunque in giro per l’Italia quest’estate va in scena l’arrivederci nomade di un gruppo che non sa ancora che cosa fare da grande. «Stefano, ripensaci», ha scritto con il pennarello su di un pezzo di cartone uno di quelli che non si rassegna, e lo strilla per tutto il concerto quasi fosse un mantra. «Dal primo ottobre - dicono - gestiremo un’azienda in tre invece che in quattro: potrebbe essere più facile, ma anche molto più difficile, quasi impossibile».
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