Molti sarebbero gli argomenti da affrontare con il maestro Muti, che vanno dalla salute recuperata alle ferali notizie che giungono in relazione alla sottrazione dell’indispensabile - siamo arrivati a questo punto - per la sopravvivenza di una delle massime glorie nazionali, l'opera in musica. Dobbiamo compiacerci da un lato per aver ritrovato Riccardo Muti in forma superba (e stasera debutta con il Nabucco al Teatro dell’Opera di Roma); dall'altro dolerci della contraddizione in termini: celebrare doverosamente il Risorgimento mentre ci si dibatte, nella migliore delle ipotesi, in uno stato di sopravvivenza. Vogliamo usare un termine musicale: andiamo «alla breve». È l’unico modo, crediamo, di parlare con Riccardo Muti.
Anche se la domanda può apparire scontata, iniziamo col chiedere il rapporto fra Nabucco e Risorgimento.
«Verdi viveva nel suo tempo, quindi intriso di elementi risorgimentali. Il successo lo spinse ad insistere sul tema con maggiori sviluppi nella Giovanna d'Arco, nella Battaglia di Legnano, nell'Attila: come dimenticare la famosa frase del generale Ezio rivolta ad Attila - «Avrai tu l'universo, resti l'Italia a me» - metafora che correva per tutte le bocche. Nabucco divenne un fatto patriottico, ma non bisogna errare: Va' pensiero non può sostituire l'Inno di Mameli. Chi la pensa così non conosce o dimentica che Zaccaria ammonisce gli Ebrei paragonando quel coro al lamento di femmine imbelli».
Non si ritiene che questi fossero gli Italiani che i patrioti volevano. Nabucco, pur essendo la sua terza opera, è l'inizio di un formidabile percorso.
«In Nabucco Verdi sorprese tutti. Penso, ad esempio, alla profezia di Zaccaria con le originali sonorità dei sei violoncelli divisi o alla morte di Abigaille, accompagnata dall'arpa, dal violoncello e dal corno inglese. Sono momenti in cui sento che il Nostro conosceva a fondo Haydn e Schubert. Nei paesi austro-tedeschi, l’accento sul basso e la sincope in levare (lo zum-pa-pà), da origine a due atteggiamenti opposti: se c'è scritto Schubert, lo eseguono con nobiltà; se è un autore italiano, si fa il tacabanda».
Era il cruccio di Arturo Toscanini quando diresse Verdi con pur prestigiose orchestre non italiane.
«Parliamoci chiaro: Verdi è il musicista del futuro, a patto di considerare nella cosiddetta “tradizione esecutiva” gli aspetti sani. Mi riferisco ad un modo non retorico, scultoreo, di esporre la declamazione dei recitativi. Verdi mi ha sempre fatto pensare al Michelangelo della Cappella Sistina, per la forza della parola e degli accenti. Nulla a che vedere con la retorica e la truculenza di molta, troppa routine. Ritengo Verdi, anche quando usa le formule più accademiche, un compositore di classe. Più lo studio più mi convinco che le sue radici prendono linfa da Mozart. È il rapporto strettissimo con la parola che li lega».
Anche nelle situazioni apparentemente felici, il fondo comune è sempre tragico.
«In Verdi la parola ha enorme potere che esige rispetto del dettato musicale. Ogni frase è sempre in funzione dell'espressione. Oggi accade, sempre più spesso con chi non mastica l'italiano, che i recitativi si fanno solo per giungere all'aria successiva. A Chicago, durante il concorso di direzione d’orchestra intitolato a Georg Solti, ho inserito una prova-studio per accompagnare al pianoforte un cantante. Un tempo era un fatto basilare. Da questo lavoro di “regia della parola” si passa al momento esecutivo sul palcoscenico». È il lavoro che si faceva nella storica Sala Gialla della Scala.
«L'ignominiosa sparizione della Sala Gialla è l'emblema della cancellazione di un modo di affrontare il melodramma, un lavoro che iniziava gran tempo prima di passare in palcoscenico. È la forza del teatro all’italiana, vale a dire dell'opera in musica».
E ora, Maestro, parliamo di Roma.
«Lavoro molto bene al Teatro dell'Opera, nonostante la situazione drammatica dovuta ai tagli. Sono però ottimista, anche perché peggio di così... Terremo presente il bicentenario verdiano (2013), sperando che il troppo non si trasformi in un'indigestione, ma che il livello rimanga alto e degno del Celebrato. Ho intenzione di riprendere Macbeth e, disponendo di un basso come Abdrazakov, Attila. In futuro mi piacerebbe dirigere Simòn Boccanegra e magari tornare ad Aida, un progetto già pensato con Giorgio Strehler: opera intimista, piena di finezze rarissime».
Nabucco con i complessi di Roma, lei lo trasferirà a San Pietroburgo.
«No, purtroppo. I medici mi avevano imposto sei settimane di riposo. Per fare questo Nabucco ho ridotto i tempi. Si può essere imprudenti, ma non incoscienti. Anche perché a Chicago mi aspettano».
Proprio perciò il pubblico di Roma le sarà grato per questa ulteriore prova di legame con il teatro della Capitale. E speriamo che induca chi di dovere a farsi promotore di un Risorgimento non storico, ma nei fatti. Quel che conta, oggi.
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