Windohek, capitale della Namibia, è una dissonanza africana. E’ una città rigorosa, ordinata, pulita, sicura, troppo perfetta per appartenere al Continente Nero. Il centro città è elegante e, se non fosse per le donne di etnia Herero con i loro vestiti variopinti e i cappelli a fiocco dal sapore tribale che si muovono con passo ondulante, tutto sembrerebbe appartenere a una linda città della Westfalia o del Baden-Württemberg. Pubblicità di bevande tedesche e cameriere cariche di boccali di birra spumeggiante, ristoranti che oltre al filetto di kudu e di zebra servono anche würstel affumicati con crauti e panna acida, case linde e ordinate con tetti troppo spioventi in attesa di una neve che cade in ben altri climi e che in Namibia non hanno mai visto. E così è tutto il paese: tranquillo, con un grande senso civico, permeato di un’atmosfera amichevole rara a queste latitudini. Ci sono cromosomi teutonici in questo pezzo di Africa Australe. I germanici l’hanno occupata nel 1885 e tenuta per 33 anni, trasformandola nell’Africa Tedesca di Sud-ovest, generando uno strano connubio tra la loro fredda efficienza e quel ritmo slow e fantasioso che segna la vita degli africani. Questa terra non ha niente da invidiare ad alcun altro stato africano. Misteriosa, affascinante, indimenticabile, selvaggia, sono solo quattro aggettivi che delimitano il perimetro dei deserti, delle coste, degli altopiani, della savana, delle montagne rocciose, dei tanti parchi nazionali ricchi di fauna dove safari è la prima parola del diario di viaggio di ogni tour in Namibia. Ethosha in lingua oshiwambo significa il “grande luogo bianco” per le grandi distese di deserto salino che occupano un quarto del suo territorio; è il cuore namibiano, un parco nazionale grande quanto Piemonte e Lombardia, lo scrigno delle specie animali e il luogo dell’avventura. Dalla vetta delle colline Ongava la visuale non ha limite di orizzonte. Ethosha è disteso ai piedi di queste pietrose koppies (alture) namibiane, in una ragnatela di boschi di alberi di mopane dalle chiome verde iridescente, di altissime acacie albide dal tronco immacolato, di acacie erioloba dai semi a mezzaluna. L’umidità della notte si disperde in una nebbia diafana mattutina e nella piana appaiono le sagome dei grandi rinoceronti bianchi che trottano per immobilizzarsi di colpo al minimo cambio di vento. Le eleganti teste delle grandi antilopi kudu fanno capolino tra i cespugli di boscia foetida, il maschio dalle lunghe corna ritorte controlla l’harem di femmine che lo precedono sotto il suo sguardo vigile e carico di ormoni. Gli impala compiono lunghi balzi, salti acrobatici nel bush disturbate dal loro nemico più rumoroso:l’uomo che si avvicina a bordo dei fuoristrada, incrinando un equilibrio fatto di silenzi e di attesa circospetta. A nord ovest di Etosha, nella regione di Kunene in un’area chiamata Kaokoland vivono gli Himba, una delle ultime etnie africane non ancora assorbite e inglobate dalla civiltà. Léopold Senghor, politico e poeta africano, scriveva, già nel ’46, che l’Africa stava cambiando troppo velocemente e incitava i giovani ad andare a vedere gli ultimi leoni. Forse gli Himba sono gli ultimi leoni di una specie troppo evoluta, diventata troppo sofisticata. Un giro nei loro villaggi di capanne di fango, dove è forte l’odore del fumo di legna, il profumo del latte di capra e quello dell’ocra che mista a burro ricopre i corpi sinuosi delle loro donne, è come un ritorno a un passato remoto; come un fermo immagine secolare. Il Damaraland, delimitato a ovest dalla Skeleton coast, è una zona lunare, con montagne e canyon di arenaria, ha paesaggi così crudi, di una bellezza ribelle che fa innamorare per la sua solitudine, per i suoi cieli di nuvole spezzate, per la sua voce profonda, arida e aspra come i suoi panorami. Nel Damaraland la terra è rossa per i solfati di ferro, pietre ovunque e cespugli filiformi di euphorbia damarana che fanno da cornice a questa terra di passione africana. Il silenzio è testimone dell’unione tra terra e aria e accompagna il passo dei rari elefanti del deserto che insieme a ghepardi, orici e springbok sono tra i pochi testimoni della vita tra queste rocce rosse. C’è ancora tempo per innamorarsi di questi spazi infiniti e di tutto quello che c’è sotto i cieli della Namibia: le spiagge della Skeleton Coast con i relitti incagliati, la sabbia grigia e le onde lunghe e assassine che non perdonano. Le colonie di otarie a Walvis Bay che fanno ribollire la scogliera con il loro continuo movimento e le loro grida gutturali di richiamo. C’è ancora tempo per perdersi tra le dune rosse del Namib e le carcasse di acacie erioloba calcinate dal sole implacabile a Sossusvlei.
Raccontano i San (i Boscimani) che l'uomo bianco ha la strana malattia di essere innamorato di questo paese e che gli uccelli tessitori, nei loro nidi a scrigno, chiudano il cuore dei bianchi e lo appendano alle acacie, in attesa del loro ritorno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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