A Napoli la politica affoga nell’immondizia

Nelle strade di Napoli giacciono abbandonate e fetenti tremila tonnellate di rifiuti. Altre 3.500 sommergono la provincia. Ogni ora i partenopei producono 50 tonnellate di nuova monnezza che va a consolidare la montagna puzzolente. Soltanto la stazza dei transatlantici regge il confronto con questi numeri da paura. Nemmeno la pioggia si porta via i miasmi che esalano dai sacchi accumulati sotto scuole e ospedali e perfino davanti a quel santuario intoccabile che è la casa del sindaco Rosa Russo Iervolino. Ma l’eco della protesta del primo cittadino è flebile quanto la sua voce.
Gaetano Pecorella, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie, ha detto ieri che Napoli è a rischio di disastro ambientale. Secondo le stime della commissione, oggi lo stock di rifiuti toccherebbe addirittura le 8/9mila tonnellate e tra un mese si rischia di superare le 60mila. Il grido di dolore è tragico. L’allarme si propaga nei palazzi pubblici, ma un rimbalzo dopo l’altro trasforma il panico in negligenza. E lo scaricabarile è diventato il passatempo più in voga ai piedi del Vesuvio. La città assiste inerte alla girandola di responsabilità. Invece che darsi da fare, le unica braccia a muoversi portano il fazzoletto al naso per tapparlo.
Napoli è il teatro del nuovo «Gattopardo». Cambiare tutto per non cambiare nulla: è quello che accade nella terza città d’Italia, una regola immutabile. Due anni fa il neoeletto premier Silvio Berlusconi risolse in poche settimane un’emergenza che durava da anni. Aprì l’inceneritore e ripulì le strade, poi passò la mano alle autorità locali e si dedicò ad altri disastri. In 24 mesi tutto è tornato come prima, più di prima. Con l’aggravante che ora i napoletani hanno un capro espiatorio in più su cui sgravarsi la coscienza, cioè Berlusconi stesso. Appena il gatto Silvio se ne va, i topi ricominciano a ballare e poi gli dicono: colpa tua. Nel resto d’Italia ognuno raccoglie e smaltisce la propria spazzatura, a Napoli no. Ci si riunisce, si discute, si sottilizza. Oppure si drammatizza, si incendia, si schiamazza: e qualcuno che mandi i camion per raccogliere i rifiuti?
La parola d’ordine è «facite ammuina». Ieri la commissione sulle ecomafie ha sentenziato che occorre «un ampio progetto». L’assessore comunale all’Igiene ha tenuto impassibile la contabilità dei sacchi neri. L’assessore regionale all’Ambiente ha fatto sapere che «i Comuni aspettano le risorse finanziarie per realizzare opere pubbliche compensative». Il presidente della Provincia ha convocato i sindaci per la prossima settimana. I cittadini di Ercolano hanno protestato per l’aumento della tassa sui rifiuti. Il procuratore Lepore ha informato che «l’inefficienza della gestione del ciclo dei rifiuti dura ormai da 20 anni». Il governatore della Regione ha allargato le braccia: benché sia il commissario straordinario, non ha poteri per aprire discariche. Intanto i sacchi restavano sulle strade.
E la Iervolino? Ora che la monnezza gli arriva al balcone ha un guizzo. In prefettura ha ammesso che «la situazione si aggrava e l’unica soluzione è la ricerca di solidarietà»: cioè pietire da qualche Comune «normale» la carità di regalare a Napoli un angolo di discarica. Il resto è il solito ping-pong di accuse. Se il contesto non fosse drammatico, ci sarebbe da ridere a sentire un sindaco indagato per epidemia colposa che domanda al governatore se intende aspettare i primi morti di colera. C’è sempre qualcun altro che ci deve pensare. La Provincia.

La Regione. La Protezione civile. Il governo. Berlusconi. E appena il premier torna a Roma, la sceneggiata riprende daccapo. Leonardo Sciascia era convinto che la Sicilia fosse irredimibile. Non aveva visto i rifiuti di Napoli.

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