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Napolitano, un’omelia tutto sommato buona (al netto del buonismo)

Caro Granzotto, ho ascoltato il messaggio del Presidente Napolitano e ne ho condiviso solo in parte l’impostazione. È vero che le parole di incoraggiamento ai giovani, unite a quelle dedicate a Napoli, che deve svegliarsi, e ai successi contro la criminalità organizzata, indicavano l’intenzione di dare speranza. Tuttavia mettere le mani avanti con i contestatori, assicurando che la riforma universitaria subirà altre modifiche o insistere sulla disoccupazione giovanile e le riforme mancate, sembrava confortare la tesi dei catastrofisti che il direttore Sallusti ha contestato proprio nell’editoriale del 31 dicembre. Che ci sia molto da fare nessuno lo nega, ma possibile che il discorso presidenziale non potesse includere qualche parola sullo sforzo del governo che ci ha impedito di finire gambe all’aria nel momento peggiore della crisi? O magari ricordare che se l’Italia ha una disoccupazione più bassa di altri Paesi, ha ricevuto il plauso degli organismi finanziari internazionali e non fa parte dei cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) sarà pur merito di qualcuno, anche se antipatico a Bersani, a Vendola e alla stampa di sinistra?
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Sfrondandola della stucchevole retorica, dell’insistente ricorso ai luoghi comuni politicamente corretti e delle ambiguità inevitabili in un politico formatosi alla scuola di un Partito comunista cultore della «doppia verità», l’omelia di Napolitano non è stata poi così male, caro Musicò. Sensazionale l’attacco, quel «italiane e italiani di ogni generazione». Nemmeno Oscar Luigi Scalfaro, eppure gran maestro del paludato trombonismo istituzionale, arrivò a tanto. Ovvio che un non certo discriminante «italiani» avrebbe fatto - come d’altronde ha sempre fatto - perfettamente al caso. «Italiane e italiani», con il distinguo di genere (badando a porre il femminile al primo posto) che codificò l’esordio d’ogni appello al popolo a fine anni Ottanta, già era inutilmente ridondante. Napolitano è andato oltre, tenendo a specificare «di ogni generazione» e cioè italiane e italiani bimbe/i, adolescenti, ragazze/i, giovinotte/i, in età della ragione, mature/i, anziane/i, vecchie/i e centenarie e centenari. Immagino che il prossimo passo sarà quello d’aggiungere «etero, omosessuali e transessuali» e poi «daltoniche, daltonici e non», «mancine e mancini, destrorse e destrorsi», «zitelle, scapoli, maritate e sposati» per finire, m’immagino, al familiare, casalingo «belle, belli e brutte e brutti». Tanto per non far torto a nessuno. Il non far (quasi) torto a nessuno è anche l’assillo che traspare dal discorso di fine anno del Presidente, un colpetto al cerchio e uno alla botte, una strizzatina d’occhio e una tirata d’orecchie. Nel tenersi in equilibrio Napolitano è stato bravo e vorrei dire anche coraggioso. Poteva cavarsela con un melenso predicozzo alla Scalfaro e invece no. All’«universo giovanile» ha mandato a dire di «massimizzare il valore della propria esperienza di studio». Traducendo, ha detto loro di studiare, ché quello devono fare: chini sui libri e non arrampicati sui tetti. Ha detto, all’«universo giovanile», di scordarselo «un futuro di certezze, magari garantite dallo Stato», ma di costruirselo, il futuro, e da sé. È vero quel che lei rileva, caro Musicò: sul piano generale, Napolitano sembra si sia lasciato andare allo scontento, alla visione cupa e nera dell’avvenire, in sintonia con gli umori disfattistici e «sinceramente democratici». «Da qualche tempo si è diffusa l’ansia del non poterci più aspettare un ulteriore avanzamento e progresso di generazione in generazione come nel passato».

Giudizio personale che certo non induce all’ottimismo quanto piuttosto a fare gli scongiuri ciascuno secondo i propri riti, ma bilanciati se non proprio smentiti dalla trionfante conclusione del suo discorso: «Sì, possiamo ben aprirci la strada verso un futuro degno del grande patrimonio storico, universalmente riconosciuto, della Nazione italiana». Non male, tutto sommato.
Paolo Granzotto

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